di Enzo Fantin

(articolo pubblicato nel n. 9 della rivista musicologica Diastema, dicembre 1994, rubrica “Estetica”)

 

Al Prof. Dino Formaggio

nel suo ottantesimo genetliaco

 

La musica in Europa, come tutte le principali forme della cultura e, tanto più, dell’arte, nasce cristiana. Alla concezione pagana, promossa dalla cultura greco-romana, in cui il fenomeno sonoro è legato soprattutto ad una fruizione immediata e con riferimento ad un universo sensibile-materiale, si oppone il suono come metafora e come esperienza mentale o spirituale, che dir si voglia. La modalità, come prototipo formale della cristianizzazione della musica, resterà sempre il codice linguistico privilegiato di questa mediazione sacro-sonora. È un tracciato che percorre tutta la storia musicale europea, che rianno da, lungo i secoli, le sue sparse fila fino al nostro tempo compositivo e ai Préludes debussyani, che sulla meditazione del Tristano di Wagner, riabilitano la musica come allusione ad un puro tracciato metafisico anche se rovesciato, specchio di una interiorità profondamente innervata nei dati del reale.

Non conta, però, qui soffermarci su una ricognizione delle tappe fondamentali che segnano questo rapporto di musica e cristianesimo con un’accezione sempre più cattolica, ma anche con riverberi lontanissimi, come è nella natura di un’arte che tutto dice senza nulla dichiarare espressamente. Ci sembra molto più importante capire quello che gli antropologi o gli storici della religione chiamano l’episteme, cioè il tessuto strutturale per cui noi pensiamo la realtà in un certo modo piuttosto che in altri. Per far questo occorre porsi alcune domande che diano risposta al quesito di fondo: che cosa significa per noi oggi la musica in rapporto ad un nesso fortissimo, storico-culturale e cultuale, come quello del periodo annuale liturgico.

 

Il tempo cristiano

 

Il tempo religioso cristiano è un tempo ‘diverso’ e forte, un tempo rigorosamente interpretato secondo le linee di una ‘salvezza’ che viene dall’alto. Il tempo cronologico diviene un mero fenomeno, un passeggero ricorrere di date senza significato qualora non venga inscritto nel tempo vero in cui simbolo-mito-rito sono coinvolti in una dinamica unica e inscindibile. Ogni religione ha in sé il principio archetipo dell’abolizione della storia o di una sua rigenerazione rituale. È un tentativo di ripercorrere l’atto puro della creazione accompagnandolo con una serie di pratiche significative come i digiuni, le abluzioni, le purificazioni per la cancellazione dei peccati. Il tempo mitico, primordiale restaura l’“istante” della creazione come per una nuova nascita. In questo modo i cicli religiosi rispecchiano profondamente la cultura arcaica e patriarcale, con il legame vivo con la terra e l’agricoltura, il succedersi delle stagioni e i raccolti. Ma la storia, intesa come interpretazione religiosa, deve innanzitutto rispondere all’esigenza di spiegare il ‘dolore’. Per la tradizione giudaico-cristiana, e prima ancora in quella mesopotamica, come ricorda Mircea Eliade, il massimo storico delle religioni del nostro secolo, “le sofferenze dell’uomo sono state messe ben presto in relazione con quelle di un dio.” 1 Ma quello che rende assolutamente nuova la conce zione del tempo storico da parte degli Ebrei, e poi dei cristiani, è la ‘dimensione della fede’, che consiste nella possibilità di cogliere i segni di Dio nel corso del tempo. La Bibbia, di cui l’anno liturgico è la struttura rituale, testimonia questa rivelazione diretta nel tempo da parte di Dio, di cui la fede è la legge di interpretazione.2 In questo modo il cristianesimo introduce una visione del mondo che riconsidera il ciclo cosmico-naturalistico in una rigenerazione per sonale, per cui il peso del tempo è sospeso e di nuovo restaurato a seconda degli interventi di Dio e in ragione della capacità di intuirli da parte del cri stiano.

 

L’anno liturgico come dimensione storica e antistorica

 

La novità e il fascino di una simile concezione si può individuare nel fatto che la celebrazione rituale coincide con quella reale: il virtuale e il mitico assumono sembianze esistenziali e lo stesso Dio, che noi commemoriamo, è anche del tutto uomo nella sua integrità psico-fisica. Egli vive per noi un modello di storia ideale, che rappresenta per tutti il prototipo della propria personale salvezza, che ripercorre fedelmente quell’itinerario archetipo, ogni volta, tuttavia, rivissuto in modo nuovo e vibrante. “In altri termini, la sto ria può essere abolita, e di conseguenza rinnovata, un numero considerevole di volte prima della realizzazione dell’èschaton finale. L’anno liturgico cristiano è infatti fondato su una ripetizione periodica e reale della natività, della passione, della morte e della resurrezione di Gesù, con tutto ciò che questo dramma mistico comporta per un cristiano, cioè la rigenerazione personale e cosmica attraverso la riattualizza zione in concreto della nascita, della morte e della resurrezione del Salvatore”.3 È proprio questo duplice aspetto umano-divino che rende il ciclo cristiano della liturgia unico nel panorama religioso. Esso è in grado di assolvere al ruolo tanto della rigenerazione continua del tempo quanto della periodicità annuale conchiusa, potendo permettere l’identificazione del fedele con l’Uomo-Dio, che soffre e muore, ma nello stesso tempo risorge, e l’intervento diretto di Dio, che è colto dalla fede. L’implicazione dei fattori umani sublimati in quelli più propriamente trascendenti e viceversa doveva costituire un elemento particolarmente importante e significativo anche per la musica, che nella sua condizione segnico-comunicati va è quasi un omologo della religione tra oggettività storica e soggettività metafisica. L’etnomusicologo svizzero Marius Schneider ha studiato profondamente i nessi che accomunano musica e magia ricostruendo il significato che il suono assume come generatore del cosmo e della voce come emanazione dell’energia vivente.4 Ancora non si è tentata però un’interpretazione antropologica ed epistemologica che dia atto del rapporto biunivoco tra esperienza cristiana e fenomeno acustico-sonoro se si eccettuano due fondamentali saggi di Gino Stefani, che per primo ha introdotto in Italia i metodi di analisi estetica come studio di un’intera civiltà sulla via di Lotman, il grande culturologo sovietico.5

 

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La fenomenologia culturale della musica come esperienza religiosa

 

Come sappiamo, arte e religione sono prassi della conoscenza intuitiva del reale e della coscienza talmente vicine e intercomunicanti che, in una società secolarizzata come la nostra, il compito che il sacro non è più in grado di assolvere istituzionalmente viene demandato all’universo estetico-artistico persino nel comportamento consumistico e desublimato rio dell’alienazione. Se il ciclo liturgico cristiano vuole attenuare o cancellare il ‘terrore della storia’ (Eliade 1949), l’arte temporale per eccellenza, la musica, opera sulla base di un ritualismo che presuppone la negazione provvisoria della temporalità cronologica e, quindi, l’acquisizione di una coscienza interiore del tempo. Questo presuppone che le due prassi, liturgica, (in cui la musica, non a caso, ha sempre avuto un’indiscussa centralità) e musicale si possono ricondurre ad un unico atteggiamento culturale di fondo, fatti salvi gli accidenti meramente esteriori e istituzionali. È una constatazione che può essere confermata anche dall’analisi del concerto colto, in cui il fatto musicale è oggetto di ‘contempla zione’ quasi mistica, registrata dalla stessa fraseologia iperbolica dei cronisti. Il fenomeno acustico-sonoro è ancora collegato, quindi, allo statuto magico-estatico,

e quindi religioso, (come ancor più confermano i rituali ‘rock’ giovanili, vere e proprie celebrazioni di una circolarità pagana). Il codice colto nasce in stretto connubio con la sensibilità religiosa e la vera svolta ‘laica’ si verificherà con lo strumentalismo barocco, dove la voce umana non alluderà più alla musica ‘delle sfere’, ma alla vibratile e fervida manifestazione del suono come percezione immediata del reale. Questo non significa, tuttavia, che la coscienza ‘religiosa’ lato sensu venga espulsa dal linguaggio strumentale (la voce imita lo strumento, non più lo strumento la voce, indice dell’interiorità). Soprattutto in un ambito in cui la musica è fortemente connessa con tutto il mondo socio-culturale ed assurge a dignità di valore di riconoscimento civile primario, come in Germania da Lutero fino a Bach padre, ma poi in tutto il classicismo (finché la musica congiunge in sé le tensioni del supremo e sublime artigianato e della coscienza purificata e morale), il senso del fare liturgico appare come assoluta riflessione sul sacro. Le figure fondamentali della coscienza del sacro, desunte dall’alveo cristiano delle sue origini, non sono di necessità limitate alle espressioni storiche della musica o della liturgia associata al fatto musica le, ma si ritrovano lungo un tracciato estremamente diversificato e soprattutto non ufficializzato nelle forme consacrate dalla Chiesa. Si pensi — solo per accennare a qualche esempio — alla densità di temi e problemi ‘salvifici’ (del nucleo ‘dolore-morte-resurrezione’) che offrono strutture compositive come la ‘forma-sonata’ da Beethoven a Brahms oppure la visione di ‘amore-colpa-morte come sublimazione dell’amore’ nel melodramma italiano o, ancora, il dramma wagneriano imperniato sul motivo della redenzione e del sacrificio dell’eroe, pur in una celebrazione decadente della morte trasfigurata come approdo alla natura e riappacificazione dei nessi dialettici della vita, o alla palingenesi elettronica di Stockhausen, in cui le suggestioni di un cosmopolitismo orientaleggiante si saldano sempre con le immagini di una sofferenza estaticamente atteggiata. Anche se il nostro tempo sembra ormai tendere verso il superamento della dialettica conflittuale cristiana, pure lievita continuamente in esso, come portato millenario ineludibile, il periodico ricorrere degli archetipi cristologici.6

 

L’esperienza musicale ‘religioso cristiana’ come prototipo del fare compositivo in senso forte

 

Non interessa, in questo breve saggio, soffermarci in un excursus, del resto noto, della musica europea ispirata ai vari momenti della vita di Cristo, ma preferiamo cogliere il significato delle tappe caratterizzanti del tempo sacro, in cui la musica diventa, più che commento, vera e propria rifondazione della stessa pratica compositiva. La cantillazione melismatica delle nostre origini musicali e culturali è un momento ancora tanto importante da costituire l’emblema di ogni ritorno e ricominciare della musica in un flusso liberatorio e diveniente. La temporalità rigida e razionalistica dell’armonia di Rameau, che nel ’700 aveva posto termine alla musica come ricerca e accostamento delle soluzioni più diverse, ha portato dopo l’esplorazione esasperata del cromatismo, alla saturazione della pantonalità, allo schematismo senza possibilità di respiro. Per questo i vari ritorni indietro alla ricerca di sistemi musicali, che potessero meglio esprimere le inquietudini contemporanee, hanno individuato nel gregoriano la via privilegiata. Il medioevo musicale tuttavia è una congerie di espressioni diverse, ora colte ora popolari, benché tutte tese ad un’elaborazione comune e ad un’ispirazione autenticamente religiosa. Il tessuto socio-culturale di quest’epoca è fondamentalmente omogeneo, strutturato sul latifondo feudale e su una rete di mondi chiusi, che ruotano attorno alla politica dell’Impero e del Pontefice; ma vivono, al di fuori dei castelli e delle abbazie, realtà multiformi con legami ancora stretti coi vecchi culti pagani. È il simbolo di una multipolarità del culto e delle fedi, come sembra indicare anche la sensibilità neo-medievale e, nel contempo, paganeggiante del nostro tempo. Il suono legato al dramma liturgico diventerà, poi, un fatto sempre più sostanzialmente colto e dominato dalla regìa gerarchica, che lo destina all’uso più opportuno a seconda delle esigenze generali della Chiesa. Questo fenomeno assume la sua configurazione più precisa e diffusa nella Controriforma.

Per converso, nasce e si sviluppa in Germania quel grandioso movimento culturale promosso da Lutero, che costituisce la vera e propria fondazione moderna della religione, dalla quale anche la musica uscirà tra sformata e, possiamo dire, tornata al suo valore este tico primario. I momenti di massimo fulgore compositivo dell’arte sono sempre quelli che uniscono al dato popolare ed autoctono lo sviluppo più complesso e sublime: si pensi a Bach a Hadyn a Mozart a Schubert a Verdi a Mahler. Così i l corale della Riforma segna la via di un recupero collettivo delle intenzionalità creative saldando tutta l’esperienza sonora ad una necessità storicamente definita. Se il Concilio tridentino, con la sua rigida normativa, anchilosava in stereotipo il processo compositivo liturgico, vedendo come il male peggiore la libera manifestazione del culto scevra dei crismi della Chiesa ufficiale, il mondo germanico, con la flessibilità dei moti soggettivi, favorisce la concezione del suono come totalità espressiva. Così Lutero apre la strada al soggetto con tutte le sue conseguenze, men tre la Controriforma, negando ogni valore al culto privato, rende anche impraticabile, nel nostro ambito culturale, una musica che non sia, volta a volta, celebrazione pubblica connessa con il teatro o ripetizione di formule ormai prive di vita. Questo è il motivo per cui il suono è sempre stato relegato, almeno nelle nazioni subalpine, a funzione esornativa, a decoro dei potenti, a svagata iperbole. Da tutto ciò comprendiamo come il significato religioso della musica e il suo uso liturgico abbiano inciso sul ruolo e il significato della musica in quanto tale.

 

Musica e culti cattolico ed evangelico

 

È un’analisi che potremmo continuare in una netta divaricazione di modelli creativi tra sviluppo della tradizione liturgica cattolica e protestante. Così il laudismo, nella sua adesione ad una semplice affabilità popolare, rimane un fatto del tutto estraneo alla nostra linea di pensiero musicale rivolta da una parte alla messa in ‘scena’ dei temi religiosi (l’oratorio), dall’altra, nella fase del barocco maturo, al pieno coinvolgimento delle voci e degli strumenti come ‘concerto’ e ‘concento’ nella festa trasversale, emana zione dello sfarzo delle corti, in cui l’immagine della divinità si confonde con quella dei ‘Principi Serenissimi’. 7 L’organo, sintesi e coronamento mirabile delle istanze del ‘sacro’ italiano, riassume e individua, nel tono dell’apoteosi, la consonanza della vocalità ora affabile ora illimite e dello strumentalismo mirabolante e virtuosistico. È un luogo deputato di tutta la musica italiana potendo anche linguistica mente variare il suo codice nell’intreccio polifonico o nel saggiare altre forme più dichiaratamente profane. La netta propensione per l’esibita mondanità e i colori accesi è confermata dalle scuole romana e veneziana, in cui l’ordito polifonico è spesso sacrificato ad un’abile scenografia sonora, che annulla il valore ascetico e meditativo dell’esperienza sonora del sacro. In definitiva, tutta la gamma fenomenologica liturgica o paraliturgica italiana è all’insegna della contaminazione e della contraddittorietà e rispecchia un uso e una destinazione quanto mai ricca ed eterogenea a scapito della più autentica e commossa spiritualità. Fatta eccezione per alcuni casi isolati, tra i quali quelli di Corelli e Alessandro Scarlatti, in cui la nobiltà dell’ispirazione si congiunge strettamente con il culto del contrappunto, sia per la nascita dei nuovi strumenti che per la chiusura dell’autorità ecclesiastica o per l’accademismo dei dotti (in primis Padre G.B. Martini, di cui è la sintomatica la condanna dello Stabat pergolesiano, perla della musica non solo sacra), il dilemma sacro-profano è destinato ad aggravarsi col tempo, né varranno la rinascita cecilia na o la riforma liturgica del Vaticano II, rivelatasi alquanto demagogica e dilapidatoria del patrimonio del passato, a riscattarne le sorti.

Che cosa accade, invece, oltralpe? La musica, come inscindibile unità di valori culturali e civici, innesca un processo creativo di grande coesione di tutti i fattori che la connotano come forte e densa rimedita zione sul sacro inteso come valore circolare e antropologico. Non a caso, l’idioma popolare non rimane isolato e privo di riferimenti, ma viene valorizzato come fonte inesauribile di allargamento delle possibilità espressive del linguaggio: è un dato che può essere riscontrato dall’antico Volkslied al Corale, alle danze strumentali barocche al lied schubertiano alla musica tzigana (Dvorák, Brahms). Contrariamente a quanto avviene in Italia, quindi, il fenomeno colto si rigenera in presenza dell’elemento autoctono, anziché rigettarlo o sottovalutarlo. Il Corale assume così una tale importanza da diventare non solo la formula portante di tutta la religiosità protestante, ma anche la prassi costitutiva della didattica della musica corale ecclesiastica e luogo geometrico di tutta la musica tedesca fino a Reger. Un altro punto di forza della tradizione germanica è che da Bach e, nella sua piena autocoscienza, da Beethoven fino a Schumann a Schubert a Schönberg a Webern, il suono, come ogni altra esperienza estetica, fa tutt’uno con l’analisi intellettuale e mentale, è abito naturale di ricerca, di stimolo razionale, di elaborazione dei contenuti del soggetto. Da qui la nascita delle grandi operazioni di sintesi fondative nella musica tedesca con dominante riflessiva e formale. Il background fiammingo agisce, infatti, con tutta la sua penetrante parsuasione. Ecco allora che la musica non è più un semplice decoro della liturgia, dell’anno sacro della salvezza, ma è in grado di porsi come metalinguaggio delle formule e dei nessi tematici vitali della celebrazione, e persino di sublimarne il senso stesso in altre configurazioni compositive. L’indice della sacralità, come modo di avvalorare anche ideologicamente l’operare estetico dando ad esso significato quasi di iniziazione, domina in tutta l’opera di Wagner: da Tannhäuser a Parsifal, da Lohengrin al Ring ai Meistersinger. Se pensiamo d’altra parte, ai Quartetti dell’ultima produzione beethoveniana, la religiosità è scavo della frase, è macerazione e ascetico distacco dalla materia, è ritrovamento, nella dignità della coscienza illuminata, del trascendentale dell’uomo moderno. Con tentativo analogo, Bartók sottopone il melos ad una sorta di arricchimento tematico e contrappuntistico, dove il ‘dolore’ per la perdita dell’integrità delle forme e delle cose diviene speranza di una rinascita nel suono di un modo utopico, sepolto nella nostra coscienza dilacerata: non è questa la resurrezione cui allude l’epilogo del ciclo liturgico-cristiano? L’uomo contemporaneo è il protagonista di un’età post-cristiana, atea e iconoclasta, neo-pagana: l’orizzonte in cui è gettata la sua esistenza è quello della dispera zione e dell’alienazione. Ancora, tuttavia, quel modello mitico può assumere un significato per lui, pena la sua stessa sopravvivenza. Lo trova nel mito dell’arte, nella corporeità dei suoi approcci, nelle cadute e nelle ‘risurrezioni’ del quotidiano affanno. La sua è una fede terrestre e terragna; il suo mito non racconta più di sublimi immagini, ma si accontenta di immergersi nel reale, più che reale che gli viene svelato dalle ‘illusioni’ estetiche. Per questo l’uomo-Dio, paziente fino alla morte, certo della resurrezione, è un ideale che riesce comprensibile per lui solo nelle deboli istanze del suo cuore martoriato e, comunque, si trasforma in metafora della sua condizione in quanto uomo, in quanto mortale e nel suo desiderio di sopravvivenza oltre la morte. Il rituale cede il passo alla storia e quest’ultima alla coscienza individuale, a quell’oscuro processo magmatico dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti. La religione perde ogni contorno sia trascendente che sociale; diviene una moralità tra le altre del nostro destino culturale e biologico: un viatico, un appello estremo, un segno muto. Ogni ripresa di una pura e semplice rilettura musicale dell’anno liturgico cristiano rimane, perciò, una via interrotta, un processo difficile e ambiguo anche se alcune scuole compositive neomedievali hanno indicato come plausibile questo tentativo. Pur apprezzabili, queste indicazioni stilistiche non affrontano fino in fondo il nodo gordiano dei materiali e delle tecniche. Anche in questo senso la strada è già stata aperta dal luteranesimo, tutto intellettuale e formalizzato nelle pieghe del comporre, di Schumann o di Brahms. La disciplina morale è perseguita come un dovere professionale e quotidiano in cui fatto religioso ed estetico trovano un comune indirizzo: le abissali arcane profondità della musica alludono definitivamente alla tensione verso la verità metafisica.

 

Quale musica liturgica?

 

Ma, ci chiediamo, vi è anche una possibilità di verificare se esiste ancora lo spazio per una musica esplicitamente liturgica? L’uso ha sacrificato completamente l’invenzione: l’organo, lo strumento sacro per antonomasia, tace e il ‘popolo’ ripete ormai cristallizzate formule e canti, che più nulla, o molto marginalmente, hanno a che fare con lo specifico problema del sacro nella musica. Arduo risulta riabilitare le formule del passato storico più standardizzato essendo il culto affidato a pochi volonterosi e non potendosi nemmeno lontanamente prevedere una vivacità partecipativa simile alla pratica corale e strumentale delle chiese protestanti ed evangeliche. Purtroppo da noi l’emarginazione della musica va di pari passo con l’affievolirsi del sentimento e della pratica religiosa, che scontano gli errori controriformistici, negatori di ogni autentico culto personale e fautori dell’apparato della Chiesa come simbolo di potere e di prestigio. Il progetto giovanneo del Concilio ha certamente rinnovato la liturgia, ma spesso anche uniformando demagogicamente la celebrazione, che si esaurisce in una recitazione che collima col vuoto.

È questo un argomento che deborda dal compito che si è assunto questo saggio e va lasciato alla competenza degli esegeti più accreditati, tra i quali autorevolissimo Valentino Donella, veronese.

 

Il superamento dei confini religiosi della musica

 

Quello che ci stava più a cuore era forse aiutare il lettore a riflettere sia liturgicamente sulla musica europea che musicalmente sulla liturgia cristiana. Se riuscirà a cogliere l’omologia dell’arte e della religione — come ci pare di aver fatto qui — allora la meditazione sul dolore e la morte (i grandi temi, ancora metafisici, dell’uomo moderno), che la scienza e la tecnologia non hanno debellato, diventerà il punto di congiunzione tra religione confessionale, celebrazione collettiva e tormento esistenziale, cui sola risposta, divenuta la fede come la ‘scommessa’ di Pascal o il summum bonum, è il palpito segreto del suono, che anche al di là delle più astratte soluzioni costruttive, è in grado di attingere da solo, per la forza genetica del suo segno, la pacificazione di ogni contraddizione terrena, quasi esercizio propedeutico alla beatifica visio agostiniana, approdo ultimo dei risorti o speranza utopica in una palingenesi cosmica. Così le società senza storia e pagane, fonda te sull’eterno ritorno dell’uguale, su una ritualità naturalistica si confondono, nell’epoca della libertà democratica e religiosa, con la crisi del cristianesimo come culto ufficiale. L’arte, la musica, ausilio della liturgia, ritornano ad essere così ancora fattore prima rio del significato della storia. Svincolate da ogni tri buto ancillare, esse sono in grado di determinare, ancora una volta, i simboli della nascita, del dolore, della morte, della salvezza dell’uomo nel mondo.

 

 


 

 

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NOTE

 

 

1 M. ELIZDE, Il mito dell’eterno ritorno, Paris, Gallimard, 1949; tr. it. di Giovanni Cantoni, p. 131 sgg., Torino, Borla, 1966.

2 Ibidem, p. 141 sgg.

3 Ibidem, pp. 166-67.

4 MARIUS SCHNEIDER, Il signific ato della musica (saggi apparsi in varie riviste in tedesco e francese tra il 1936 e il 1964); tr. it. di A. Audisio, A. Sanfratello e B. Trevisano; si vedano soprattutto i capitoli I e II (“Il significato della musica” “La musica come modello del mondo”), Milano, Rusconi, 1970.

5 JURI LOTMAN, La struttura del testo poetico, Mosca (promanuscripto); tr. it. Milano, Mursia, 1973.

6 Per una ricognizione delle figure della coscienza fenomenologica della musica, rimando alla mia tesi di laurea Ipotesi di analisi fenomenologico-semiotica della musica discussa nel 1975 a Padova presso la Facoltà di Lettere e Filosofia, relatore il Prof. Dino Formaggio, della scuola di A. Banfi e, in particolare, al capitolo “Musicologia e fenomenologia” (in special modo pp. 146-163 e 179-190) e, nella seconda parte, al capitolo “I problemi di una semiotica della musica” (pp. 229-261).

7 GINO STEFANI, Musica barocca: poetica e ideologica (specie i primi due capitoli “La festa” e “Il Concerto”, Milano, Bompiani, 1974). Sarà utile anche un confronto con il volume, sempre dello stesso Autore, Musica e religione nell’Italia barocca(soprattutto i capitoli I e IV “Culto e rito”, “La devozione: laudi e oratori”), Palermo, Flaccovio, 1975.

 

 

INDICAZIONI BIBLIOGRAFICHE

 

È ovvio che un tema come questo richiede una vasta opera di ricognizione interdisciplinare, entrando nella discussione sia problemi antropologici, teologici e di storia delle religioni che di storia della musica, con particolare riferimento a quella sacra e liturgica, senza trascurare, tenuto conto del tipo di analisi qui condotta, lo studio degli autori di area austro-tedesca, che più hanno indagato le istanze ‘religiose’ del suono in sé considerato (di cui non si dà una scelta di testi perché se ne presuppone una certa conoscenza).

Per quanto riguarda le notizie relative alla periodizzazione musicale (specie medioevale e barocca, sul versante opposto allo sviluppo del Corale in Germania) si vedano le voci: Italia, Germania e Musica sacra n e l D.E.U.M.M. diretto da Alberto Basso.

Per quanto si riferisce, invece, alle tematiche religiose e antropologiche, si possono consultare utilmente i seguenti volumi:

JACQUES ATTALI, Bruits, Essai sur l’économie politique de la musique, 1977 (tr. it. di S. Mancin), in particolare i capitoli “Sacrificare” e “Rappresentare”, Milano, Mazzotta, 1978.

GERARDUS VAN DER LEEUW, Phaenomenologie der Religion, G. B. Mohr, Tübingen, 1956, tr. it. di V. Vacca, Fenomenologia della re ligione, p. 66, Torino, Boringhieri, 1975.

MAX WEBER, Gesam melte Ausfsaetze zur Religionssoziologie. II Hinduismus und Buddhismus , tr. it. di G. Mancuso e E. Schoefer Munchio, Sociologia della religione, p. 326, Roma, Newton Compton Editori, 1975.

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