di Luigi Lera
8 – Binari
Il mio collega ama tagliare le questioni con l’accetta, interviene Aristotele, ma in verità le cose non sono mai così semplici: chi ha adottato le caselle binarie era sinceramente convinto di aver fatto una scelta legittima e coerente. Le ragioni che aveva trovato derivavano direttamente dalla lettura delle fonti del tempo, soprattutto dai manuali di teoria e di didattica: se le vogliamo comprendere dobbiamo provare a seguire il loro percorso.
Il problema di fondo è che le fonti bisogna saperle leggere. O per lo meno bisogna aver chiaro il concetto di che cosa un autore vuole dirci, oppure è in grado di dirci, e di che cosa va inesorabilmente al di là delle sue intenzioni e delle sue competenze. La teoria è comunque fatta da uomini e gli uomini, è inevitabile, prendono abbagli: non comprendono le ragioni di procedure andate in disuso, provano a spiegarsele in termini che sembrino chiari ai loro occhi, tendono a riprendere i discorsi e le spiegazioni dei loro colleghi, giustificano e avvallano interpretazioni scorrette. Soprattutto, e qui sono anche privi di ogni colpa, non hanno la minima idea di quello che vorremmo sentirci dire noi, a distanza di cinque secoli, per afferrare l’esatta logica che governa un dato passaggio dei loro discorsi. Facciamo la riprova con qualcosa di moderno, ad esempio un semplice giro armonico che impegna soltanto le funzioni più elementari del circolo tonale:
Il secondo accordo è una triade di sottodominante che ha ricevuto una semplice spruzzata di colore; la teoria della composizione non ha difficoltà a definirla accordo di sesta napoletana ma quando si tratta di spiegare la sua logica le opinioni si dividono. Chi pensa che tutte le note di un accordo debbano per forza essere reali, vale a dire dotate di una loro specifica funzione armonica, si ritrova subito a dover usare elaborati giri di parole del tipo triade maggiore del secondo grado abbassato disposta in primo rivolto con la terza raddoppiata, decisamente un risultato troppo impegnativo per quella che potrebbe essere una semplice nota di volta cromatica affidata al Soprano. Le differenze di opinione si fanno decisamente incolmabili a proposito del terzo accordo, la quarta e sesta collocata in battere sulla seconda battuta: quale cifratura funzionale dobbiamo attribuirgli? Scriveremo I-46, trattando tutte le note come reali, oppure scriveremo V-46 attribuendo al Soprano e al Tenore il ruolo di due semplici appoggiature? Nel primo caso la manualistica ci impone di raddoppiare la quinta e di collocarla al Basso, cosa che effettivamente abbiamo già fatto; ma a questo punto il quarto accordo risulterebbe essere collocato tra due accordi della tonica e dovrebbe avere il sapore di un movimento di volta in posizione debole, qualità che in tutta sincerità non riesce proprio ad assumere.
Il problema è sempre quello, quando il nostro treno arriva a uno scambio siamo obbligati a una scelta senza ritorno: imboccare un binario logico oppure un altro. Qualunque sia la direzione che prendiamo la nostra decisione ci porterà in un senso oppure in un altro, ci farà incontrare nuovi scambi e ci obbligherà a prendere nuove posizioni. Tenuto conto del fatto che ben difficilmente la fallibilità della nostra natura umana ci consentirà di abbracciare ogni volta il partito migliore, ecco che in breve tempo ciascuna scuola di pensiero arriva a perdere ogni possibilità di dialogare con le sue consorelle. Leggere un trattato di armonia significa immergersi in un dato mondo e solo in quello: può essere un’occasione per imparare a riconoscere le sue caratteristiche, un invito a coglierne i pregi ma spesso anche una spinta a prendere le distanze dalle sue posizioni meno efficaci.
Con il sesto accordo la tonica si trasforma in una triade eccedente: moneta corrente per chi pratica il Jazz, anche se nei manuali di armonia prodotti in quel contesto la combinazione “Do 5+” può regolarmente essere tradotta con do-mi-la bemolle. Per quanto ci riguarda può essere soltanto una questione di farci l’abitudine, ma quando a leggere saranno i nostri lontani pronipoti non ci resta che sperare che riescano a capire da soli il senso di quel movimento. Nuova spruzzata di colore per l’ottavo accordo, siamo tentati di scorgere un tentativo di modulazione alla relativa di si bemolle maggiore ma per fortuna la settima diminuita sul quarto grado alterato ci riporta subito nell’ambito della nostra scala: per i manuali dovrebbe trattarsi di una sorta di risoluzione eccezionale ma al nostro orecchio suona stranamente facile e naturale. Ritardo della terza sul nono accordo, una combinazione che a rigore non gode neppure dello status di funzione armonica: i nostri testi scrivono spesso che si tratta di un artificio, la manualistica anglosassone la definisce suspended fourth motivandola nel senso diametralmente opposto a quello in cui la giustifichiamo noi. A proposito del decimo accordo, se dovessimo considerare come reali tutte le sue componenti che cosa dovremmo dire per descriverlo? nessuno penserebbe di azzardare perifrasi come triade del terzo grado disposta in primo rivolto con la terza raddoppiata ma staremmo soltanto applicando la stessa logica che abbiamo chiamato in causa per la sesta napoletana della prima battuta. Per fortuna il fa del tenore, ci viene da pensare, cambia da solo il sapore di tutto l’accordo ripristinando la sonorità della dominante: sarà giusto dire così oppure dobbiamo considerare l’ultima semiminima come un’altra imbarazzante nota di volta? Nessuna delle due spiegazioni, in verità, coglie l’esatta natura di questa armonia ingentilita da una semplice nota di passaggio.
Proviamo a scendere più indietro nel tempo. Quando si parla di ligaturae, un argomento con cui chi si occupa di musica rinascimentale deve prima o poi imparare a misurarsi, non possiamo ignorare che già al tempo di Franco di Colonia i criteri logici che non più di cinquant’anni prima avevano guidato le trasformazioni della grafia musicale cominciavano ormai a essere dimenticati. Le spiegazioni e le definizioni offerte da chi opera intorno alla metà del XIII secolo sono già indirizzate sui binari sbagliati.
La prima figurazione consiste in una brevis seguita da una longa, recitano concordemente le nostre fonti, perché inizia con una linea discendente. E la seconda? Qui la nota iniziale si è trasformata anch’essa in una longa perché lo stelo iniziale è assente; testuali parole di Franco ma la spiegazione è assolutamente fuori strada, non potrebbe che confondere le idee a uno sprovveduto lettore moderno. Vediamo la terza figurazione: ancora brevis più longa perché è presente la linea discendente finale, tanto è vero che la quarta termina con una brevis perché ha perduto ogni traccia del suo stelo discendente. Linee che vanno e vengono, linee che allungano o accorciano ma senza la minima logica, a volte quando arrivano e a volte quando scompaiono, regole che si invertono tra loro: nulla di strano che tutto questo capitolo della teoria, in effetti talmente semplice e intuitivo da essere rimasto per secoli nell’uso corrente, sembri così ostico e sconclusionato ai lettori moderni. Proveremo presto a mettere un po’ di ordine.
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Prendiamo in considerazione un altro genere di trabocchetti. Quando Dante fa dire a Giustiniano che “diverse voci fanno dolci note” ci sta forse suggerendo l’immagine del coro dei beati che canta le lodi del Creatore in un tripudio di armonie diverse? Assolutamente no, ci sta facendo osservare che ci vogliono differenti note (le voces musicales) per creare una dolce melodia. Quando Zarlino ci descrive l’importanza di una “scienza armonica” sta forse parlando della vibrazione dei suoni, degli spettri armonici e in prospettiva anche delle ecografie addominali? Impensabile. Quando De Vitry ci confida che in un certo suo rondellus c’è un problema di musica ficta vuole dirci che non sa bene se piazzare o no un diesis? Niente affatto, ci sta dicendo che non sa proprio che nome deve dare a quello strano e imprecisabile suono che sta lì a metà strada tra il fa e il sol.
Dobbiamo stare attenti che il nostro senno di poi non proietti le nostre aspirazioni, oppure quello che a noi sembra ovvio, su quello che altre persone stavano cercando di dirci parecchi secoli fa. E dobbiamo magari imparare a prendere le giuste distanze da quello che scrivono: quando Monteverdi attribuisce tutto il merito del successo del Combattimento di Tancredi e Clorinda all’uso del tempo pirricchio non si sta certo dimostrando, possiamo permetterci di dirlo, all’altezza della sua infallibile abilità di compositore.
Il segno del semicerchio, a questo proposito la teoria musicale non ha mai mostrato il minimo dubbio, indica che la brevis si deve dividere in due semibrevi. Il concetto è talmente ovvio che la manualistica rinascimentale resterà sempre insolitamente sbrigativa con le eventuali osservazioni di contorno: è così e basta, non sembra esserci altro da aggiungere. In effetti ci sarebbero molte precisazioni da mettere in chiaro ma non possiamo pretenderle dagli autori del Trecento e del Quattrocento, dobbiamo essere noi a mettere i paletti perché è la nostra idea di musica a mettersi di traverso a questa semplice formulazione.
Quando viene estratto dal cassetto dello schema teorico di De Vitry e viene inserito in un pentagramma di musica reale, il segno del tempus imperfectum acquisisce immediatamente un significato in più: il fatto che al centro del segno non ci sia un ulteriore punto indica che bisogna leggervi anche una prolazione minore. Significa che la semibreve, a sua volta, si deve poter dividere in due minime per un totale di quattro suddivisioni.
Senza pensarci troppo abbiamo replicato l’esempio precedente usando i valori bianchi: ma in questo modo il nostro schema ha già compiuto un altro passo, ha cominciato a calarsi nella Storia e ha iniziato immediatamente a sottintendere tutta una serie di nuovi significati. Negli anni in cui la notazione veniva dealbata anche la minima aveva ormai acquisito una natura binaria, vale a dire poteva a sua volta dividersi in due semiminime; avrebbe presto iniziato a ricavare allo stesso modo il suo prossimo sottomultiplo, la croma, e come sappiamo avrebbe continuato nei secoli a produrre tutta una serie di frazionamenti ancora più minuti (semicroma, biscroma, semibiscroma, fusa…) generandoli sempre e esclusivamente per via binaria.
Questo per quanto riguarda i sottomultipli; che cosa possiamo dire a proposito del versante opposto, quello dei multipli? Ai tempi della dealbazione tutta una nuova serie di significati stava lentamente acquisendo una concreta solidità, imponendosi sul piano della pratica musicale senza neppure attendere una legittimazione esplicita da parte della teoria. Il segno del tempus imperfectum indicava senz’altro che l’intera serie dei multipli di queste figure, prima di tutto la longa ma poi anche la duplex longa, doveva eventualmente essere ricavata in base a un analogo calcolo binario.
Si era così costituita una serie di almeno sette figure, dalla duplex longa alla croma, correlate tra loro in base a rapporti esclusivamente binari: spetta ancora a noi moderni, perché le fonti coeve non sarebbero mai in grado neppure di porsi la questione, chiederci quale di queste figure svolgeva il ruolo importantissimo di rappresentare l’unità di tempo. Il discorso investe subito i due concetti opposti e complementari di slittamento dei valori e di frazionamento delle unità di tempo, aspetti della pratica musicale che cadono sotto il dominio della Storia e non della manualistica: nessuna fonte scritta che risale al Rinascimento possiede le risorse logiche e le competenze storiche per poterci venire in aiuto.
Conosciamo già le risposte: sappiamo bene che non può essercene una sola perché tre interi secoli sono effettivamente un periodo piuttosto lungo quando vengono misurati sul terreno della pratica musicale. Ai tempi in cui De Vitry inventava il segno del semicerchio è ancora possibile che i musicisti contassero il tempo sulla brevis ma era anche inevitabile che in qualche modo, già nel corso del Trecento, la scansione scivolasse progressivamente verso la semibrevis; intorno alla metà del Quattrocento l’introduzione del semicerchio tagliato riportò bruscamente all’indietro la scala delle figure facendola procedere ancora una volta dalla brevis. Il proposito era quello di mettere un freno al proliferare di nuovi frazionamenti, l’abbiamo già detto, ma quello che qui ci interessa è il fatto che questo intervento non intaccò minimamente la lunga catena dei rapporti binari che ormai legava indissolubilmente tutte le figure disponibili: la rese se mai ancora più solida ribadendo la natura della brevis. Nei decenni a cavallo del nuovo secolo la musica ritornò a misurare il tempo sulla semibrevis e questo assetto ritmico perdurò a lungo in generi musicali prestigiosi e solenni come l’ambito della musica sacra. Dopo la metà del Cinquecento le Corti e le Accademie musicali spostarono sulla minima l’assetto ritmico delle loro musiche; il trasferimento successivo, quello orientato verso la semiminima e verso la nascita del quattro quarti, riguarda la pratica musicale del Sei e Settecento e non interessa più il nostro discorso.
Le opzioni disponibili si riducono quindi a brevis, semibrevis e minima: vagamente sprovveduti riguardo ai meccanismi della musica, sicuramente non abbastanza informati sul versante del repertorio, i nostri predecessori del tardo Ottocento devono aver avuto davanti agli occhi questa triplice prospettiva. Se davvero lo schema è questo facciamolo coincidere con una battuta, devono essersi detti: in questo modo le nostre trascrizioni risulteranno immediatamente chiare e comprensibili per chiunque anche a prescindere da quale sia l’unità di tempo effettiva. Il ragionamento deve essergli sembrato legittimo e condivisibile, ma in realtà la logica che lo governa è estremamente traballante.
Che cosa rappresenta lo spazio compreso tra le due stanghette che noi collochiamo a intervalli regolari quando trascriviamo la musica polifonica? Non certo una battuta, l’abbiamo visto, se mai una casella; i problemi che ancora oggi ci danno da pensare sorgono proprio quando quella casella comincia a nutrire l’ambizione di trasformarsi in una vera e propria battuta.
– Se il ritmo del pezzo si misura sulla brevis allora lo spazio che abbiamo appena tracciato non può essere una battuta: la battuta non può mai coincidere con l’unità di tempo, anzi deve comprendere per definizione un certo numero di queste unità proprio perché il suo scopo è essenzialmente quello di differenziarle sul piano funzionale. Armonia iniziale, eventuali armonie di movimento, possibile armonia conclusiva o di transizione: se il ritmo si misura sulla brevis allora le stanghette non possono che collocarsi a distanza di un certo numero di queste figure.
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xv-secolo/josquin-desprez/nimphes-des-bois
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xv-secolo/josquin-desprez/nimphes-nappes
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xv-secolo/josquin-desprez/tu-solus
– Se il ritmo del pezzo si misura sulla semibrevis lo spazio fra le due stanghette potrebbe effettivamente rappresentare una battuta, ma l’editore dovrebbe almeno prendersi la responsabilità di dimostrare che la sua scelta non è arbitraria. Un andamento binario non è infrequente nel repertorio per il semplice motivo che la brevis è il multiplo primo ed elementare dell’unità di tempo; in un brano dove il frazionamento non sia particolarmente spinto questa figura può ancora assumersi la responsabilità di governare l’assetto ritmico di una intera sezione. Il repertorio del tardo Quattrocento può anche offrire parecchi casi di fraseggi particolarmente solenni in cui è la longa, il secondo multiplo della semibrevis, a dettare l’andamento: in quel caso lo spazio fra le due stanghette dovrebbe saper prendere l’aspetto, ma solo l’aspetto, di una battuta quaternaria.
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xv-secolo/josquin-desprez/cueurs-desoletz
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xv-secolo/josquin-desprez/mille-regretz
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xv-secolo/josquin-desprez/basiez-moy
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xv-secolo/josquin-desprez/vultum-tuum
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xv-secolo/dufay/ave-regina-celorum
Gaude gloriosa: la frase di esordio è modellata sulla duplex longa.
Man mano che l’andamento della semibrevis si andava frazionando in figure più minute, e qui il nostro discorso si riporta nuovamente sul piano della Storia, il ruolo di ordinatrice della brevis diventava sempre meno determinante; il compositore si abituava intanto a fare i suoi conti fermando l’attenzione sulla sola unità di tempo. A questo punto la pratica musicale cominciò a offrire spazio a un imprevedibile argomento che i segni mensurali non erano assolutamente in grado di gestire, appunto quello dei multipli del tempo primo.
Le indicazioni mensurali del Rinascimento sono state concepite in risposta alla necessità di specificare le suddivisioni tra le figure: non forniscono mai indicazioni relative ai multipli dell’unità di tempo. Nel momento in cui lo spazio tra le due stanghette si dichiara disposto ad accogliere più di un singolo movimento la scelta di quanti inglobarne nella battuta non dipende più dal segno antico ma diventa una nostra esclusiva responsabilità: la decisione non può più essere né scontata né pacifica. Se ci sembra giusto stabilire che l’andamento di un brano si sta articolando sulla semibrevis allora qualunque tipo di accorpamento relativo a questa figura, battute da due o da tre o da quattro o da cinque e più tempi, diventa in potenza pienamente legittimo.
Fino dai tempi del canto gregoriano il compositore si è sempre sentito libero di poter costruire il fraseggio di un determinato episodio misurandolo su un certo numero, anche ricorrente, di movimenti. Nel repertorio rinascimentale i casi più evidenti di schemi che si ripetono sono dati dalle progressioni armoniche, una vera moda dilagante verso la fine del Quattrocento, oppure dagli episodi in cui due o più gruppi di voci riprendono in regolare alternanza gli stessi spunti. Il compositore allinea sulla sua tabula le note di una breve frase e poi non fa altro che trasferire le medesime note di voce in voce: l’infinita ricchissima varietà di soluzioni di cui si trova a disporre proviene proprio dal fatto di non avere nessun tipo di vincolo all’infuori del rispetto del tempo primo.
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xv-secolo/jacob-obrecht/missa-maria-zart
Credo, Patrem omnipotentem: due tempi da 131, tre tempi da 145.
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xv-secolo/josquin-desprez/mente-tota
- 5 Vultum tuum: tre tempi da 90, quattro tempi da 151.
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xv-secolo/heinrich-isaac/quis-dabit-capiti-meo
quattro tempi tra 19 e 26.
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xv-secolo/jacob-obrecht/missa-maria-zart
Credo, Qui propter: cinque tempi da 65, tre tempi da 97.
Gloria, Qui tollis II: sei tempi da 76, tre tempi da 137.
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xv-secolo/josquin-desprez/huc-me-sydereo
sei tempi, due frasi da quattordici tempi tra 69 e 96: in questi contesti le nostre partiture possono cominciare a adottare un certo numero di stanghette intermedie. Quattro tempi da 155, sei tempi da 163.
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/andrea-gabrieli/angelus-ad-pastores-ait-a-4
tre tempi da 15 e due tempi da 21, il tutto replicato tra 25 e 34; cinque tempi (3 più 2) da 57.
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/andrea-gabrieli/filiae-jerusalem
quattro tempi (2 più 2) da 26, il tutto replicato tra 25 e 34; cinque tempi (3 più 2) da 57.
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/andrea-gabrieli/ego-rogabo-patrem
cinque tempi da 71.
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/andrea-gabrieli/fuit-homo
tre tempi per tutta la sezione di esordio.
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/andrea-gabrieli/magnum-hereditatis-misterium
tre tempi per tutta la sezione di esordio, ma la partitura assegna a ciascuna voce un modulo da otto tempi diviso in 3 più 3 più 2.
In tutti questi casi imporre alla musica un andamento binario, con l’unica giustificazione di una lettura distratta e superficiale delle fonti teoriche, significa soltanto perpetuare un facile pregiudizio di stampo ottocentesco: i segni mensurali del Rinascimento non forniscono indicazioni relative ai multipli, vale a dire non codificano battute.
– Se il ritmo del pezzo si misura sulla minima, infine, possiamo ben dire che sul piano storico il Rinascimento è ormai giunto alla sua piena maturità; la battuta quaternaria costituisce sempre una opzione possibile ma a maggior ragione non sarebbe che una delle tantissime soluzioni a cui il compositore può ricorrere con disinvolta libertà. La tecnica contrappuntistica del tardo Rinascimento si esprime attraverso schemi e moduli ritmici sempre variati che si rincorrono e si avvicendano fra loro, alternandosi frase per frase e episodio per episodio: qualsiasi misura scelta a tavolino e applicata rigidamente per tutta la durata di un pezzo perderebbe in partenza ogni speranza di poter rendere giustizia alla smaliziata abilità dei compositori.
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/luca-marenzio/non-vidi-mai
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/luca-marenzio/vezzosi-augelli
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/luca-marenzio/zefiro-torna
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/claudio-monteverdi/ecco-mormorar-l-onde
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/claudio-monteverdi/non-sono-in-queste-rive
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/claudio-monteverdi/lagrime-d-amante
In queste composizioni è nascosta l’eredità che i musicisti del Rinascimento hanno affidato agli autori della generazione successiva. Riuscire a catalogare i passi e le soluzioni che hanno spianato la strada alle tecniche degli operisti del Seicento può senz’altro essere una prospettiva affascinante, ma questa strada non potrà essere completamente sgombra fino a quando la barriera di filo spinato della fittizia battuta binaria continuerà a rendere inaccessibili le intenzioni artistiche dei precursori. Chi ha l’ambizione di dire una parola nuova nel campo della polifonia rinascimentale deve prima di tutto avere il coraggio di abbandonare per sempre questa annosa pratica sterile e ingiustificata.
Per contattare Luigi Lera: luigilera@libero.it