Marcello Conati

 

(articolo pubblicato nel n. 5 della rivista musicologica Diastema, giugno 1993, rubrica “Opera”)

 

«Grugniti, boati, muggiti, risa, barriti, sghignazzate, i soliti gridi solitari di bis fatti apposta per eccitare ancora più gli spettatori, ecco, sinteticamente, qual è l’accoglienza che il pubblico della Scala fa al nuovo lavoro del maestro Giacomo Puccini. Dopo questo pandemonio, durante il quale presso che nulla fu potuto udire, il pubblico lascia il teatro contento come una Pasqua! e mai si videro tanti visi allegri, e gioiosamente soddisfatti come di un trionfo collettivo». Questa la cronaca della tempestosa prima rappresentazione di Madama Butterfly, avvenuta alla Scala di Milano il 17 febbraio 1904, quale si può leggere in “Musica e Musicisti”, periodico di Casa Ricordi, editrice delle opere di Puccini. I clamori avevano raggiunto il culmine nella seconda parte dell’intermezzo sinfonico del 2˚ atto (che nella primitiva versione riuniva gli attuali 2˚ e 3˚), provocati da una trovata vera mente infelice, anzi propriamente insensata, del regista Tito Ricordi; narra in proposito Rosina Storchio, l’interprete protagonista: «Per colorire il quadro con maggior suggestione, Tito aveva pensato che al cinguettìo della scena rispondessero altri stormi dal loggione. E per ottenere un più sicuro effetto aveva disseminato, con appositi fischietti intonati musicalmente, alcuni impiegati della Ditta e delle Officine, disposti in due gruppi a sinistra e a destra per rispondere a tempo. […] Ma quella sera agli schiamazzatori non parve vero d’approfittarne. […] Al cinguettìo seguirono latrati di cani, chicchirichì di galli, ragli d’asino, boati di mucche, come se in quell’alba giapponese si risvegliasse l’arca di Noè».

Madama Butterfly, è noto, doveva risorgere qualche mese più tardi al Teatro Grande di Brescia a prezzo di alcune modifiche non irrilevanti, tese più che altro a conciliare le ragioni del dramma con le abitudini del pubblico: alcuni tagli e opportuni aggiustamenti nella prima parte del 1˚ atto, il sacrificio di un’affascinante cantilena di Butterfly prima del coro a bocca chiusa, la molesta inserzione dell’arioso Addio, fiorito asil (una concessione al protagonismo tenorile che nulla aggiunge e molto toglie alla cruda rappresentazione dell’avventuriero), la divisione del 2˚ atto in due parti distinte, separate da un intervallo. A quest’ultimo proposito aveva avuto indubbiamente ragione Puccini nel voler mantenere costante la tensione drammatica, concentrata sull’attesa della protagonista e accentuata dall’intermezzo strumentale che segue il coro a bocca chiusa, senza interromperla con un calar di sipario: «Niente entr’acte e arrivare alla fine tenendo inchiodato per un’ora e mezzo il pubblico! È enorme, ma è la vita dell’opera» aveva scritto il compositore a Illica durante la gestazione dell’opera (e assai opportuno risulta pertanto il ripristino, oggi sempre più frequente da parte di maestri e di registi, del taglio drammaturgico originariamente concepito dall’autore, onde mantenere la continuità della scena dopo il coro a bocca chiusa; si avesse anche il coraggio di omettere il citato arioso di Pinkerton!…).

Dopo il riscatto di Brescia Madama Butterfly è divenuta in breve una delle opere più frequentemente rappresentate, fra le più amate e popolari, al pari di capolavori che in passato pure avevano incontrato alla prima sera la disapprovazione del pubblico. Amata dal pubblico. Rinnegata dalla critica. Nessun operista in passato, tranne forse Donizetti, ha subìto al pari di Puccini una così tenace avversione da parte degli “addetti ai lavori”. In Butterfly le giapponeserìe, il sentimentalismo svenevole, la leziosaggine di alcuni episodi incidentali, il tono operettistico di alcune situazioni, certa fanciullaggine di atteggiamenti nella protagonista (una quindicenne, peraltro), l’apparente facilità delle idee musicali, hanno incontrato e ancora incontrano l’ostilità di critici e studiosi, fuorviando la comprensione dell’opera e allontanando indagini non superficiali. E allorché in tempi recenti è stata finalmente affrontata qualche seria riflessione attraverso l’esame delle strutture profonde (vedi ad esempio lo studio di Antonino Titone, felicissimo per intuizione e procedimento d’analisi, anche se meno convincente nelle conclusioni) immediata da parte dei melomani l’accusa di comportamento improprio, da freddo e impassibile anatomista, insensibile al fascino della melodia…

Non c’è maggiore difficoltà che capire ciò che sembra facile. Perché facile sembra infatti la Madama Butterfly, almeno al primo ascolto, a onta di tutta la complessità che vi si cela nel profondo. Proprio per il fatto che questa musica ammantata di splendore strumentale esercita nella sua apparente facilità un fascino denso di molteplici significati, sorge spontaneo l’impulso di comprenderne la vera natura, studiarne il segreto dispositivo che ce la rende ancora oggi così seducente. È atto doveroso verso ogni opera d’arte che richiami costantemente a sé folle di spettatori, lo è tanto più nei confronti di Puccini che ebbe a subire in vita e oltre, a onta di un’immensa fortuna popolare, la prevalente incomprensione e disistima della critica. Nulla vieta all’ascoltatore di abbandonarsi alle sensazioni che la musica di Puccini produce. Forse proprio questo egli voleva. Ma nulla vieta anche di cercar di capire oltre quelle sensazioni tentando di penetrare nei procedimenti compositivi che ne stanno a fondamento.

Forse l’errore più comune ascoltando opere Puccini, la Butterfly in particolare, è di considerarne l’aspetto melodico, in uno con la veste strumentale, come il fattore più eminente e decisivo dell’edificio drammaturgico, come sua unica struttura portante, una struttura che alla fin fine si rivelerebbe anzi come una sorta di rivestimento esteriore atto a nascondere il vuoto di reali contenuti poetici. Viene in mente a tal proposito una frase di Verdi che suona press’a poco così: «Buoni motivi musicali se ne trovano sempre, il difficile è trovare buoni soggetti». Puccini, di cui è ben nota la proverbiale incontentabilità nei confronti degli argomenti da musicare, avrebbe certamente sottoscritto tale affermazione.

 

Desideri essere sempre aggiornato sui nuovi contenuti e pubblicazioni di Diastema?

Iscriviti gratuitamente alla nostra newsletter

 

 

L’apparente banalità della Butterfly sembra derivare da quel tono ‘operettistico’, specie nel primo atto, tante volte biasimato dai commentatori. Attraverso una rilettura più attenta e consapevole dello spartito ci si rende conto che lo scarto stilistico che si stabilisce fra l’ingresso della protagonista e tutto quanto lo precede si rivela operazione non casuale bensì predeterminata. Quel tono ‘operettistico’ non vuole affatto svolgere una funzione narrativa, bensì esprimere una funzione per così dire alienante: musica di sfondo, una sorta di tappezzeria sonora, si direbbe, insomma un espediente volutamente calcolato per il suo stile “basso” al fine di lasciar emergere, isolando la in primo piano ed elevandola a un livello stilistico superiore, la figura della protagonista. Per suo mezzo, attraverso i ritmi iterativi che lo contraddistinguono, viene inoltre conferita alla vicenda drammatica una sorta di meccanizzazione dell’ambiente che determina negli avvenimenti quella «burattinesca fissità» di cui parla Titone nel suo saggio, una sorta di fissità che il discorso musicale pur mobilissimo nei ritmi e nelle transizioni armoniche riesce a mantenere attraverso ogni sorta d’azione incidentale: il carattere yankee da un lato, dall’altro i marionettismi di Goro, il cicaleccio dei parenti, il matrimonio burletta, le giaculatorie di Suzuki, Yamadori, il tè, tutte le giapponeserìe insomma (anche quelle stesse di Cio-Cio-San alle prese con il suo ambiente). Tutto questo alla lunga si traduce nella fissità del dramma della protagonista, freddamente osservata dall’ambiente circostante come “farfalla da uno spillo trafitta ed in tavola infitta”, e ne sottolinea la disperata solitudine, l’isola mento psicologico, lei tutta sola e “rinnegata”, rinchiusa nel suo grande amore, “e fuori il mondo”. La fissità che l’elemento musicale, pur mobilissimo, come s’è detto, riesce a determinare sulla vicenda, è risultato drammaturgico già perseguito da Puccini in altre sue precedenti opere (il 3˚ atto di Manon Lescaut, il finale del 1˚ atto di Bohème, tanto per fare un paio di esempi significativi), e ripreso in opere successive fino alla Turandot (in cui il ruolo delle maschere realizza una compiuta compenetrazione fra meccanizzazione dell’ambiente e dramma). In Butterfly esso assume una funzione drammaturgica ancor più incisiva e determinante, direi quasi totalizzante, tale da trasformare l’intera vicenda, a partire dall’entrata della protagonista, nella rappresentazione di un trance. Come ha già osservato Titone il risultato ultimo è quel «ruotare su se stesso di un unico evento: la disperazione della donna, la sua ostinazione folle, la sua solitudine».

Per spiegare questo risultato occorre tenere presente che la tecnica compositiva di Puccini nel rapporto fra canto e orchestra si fonda sul procedimento sintattico della musica di conversazione, che a sua volta discende per via diretta dal parlante dell’opera ottocentesca. Attraverso tale procedimento egli fa ampia mente tesoro di una delle conquiste più rilevanti della tradizione melodrammatica perseguita e realizzata da Verdi: la fusione degli stili espressivi. In Puccini tale fusione, espressa con grandissima abilità per transizione (vedi il primo atto di Tosca) o per sovrapposizione (vedi il quartetto di Bohème) di elementi musicali — dal comico al patetico, dal brillante al tragico, dall’umoristico al descrittivo, dal lirico al grottesco — viene ulteriormente consentita dalla riduzione della melodia in termini di durata. È stato talvolta affermato che la melodia di Puccini — pur dotata di un’incisività, di una densità e di un’immediatezza comunicativa di cui ben pochi musicisti sono stati capaci — ha il respiro breve. In realtà — Rossini docet — la brevità diventa una inderogabile necessità ai fini costruttivi: calcolata e dosata per la continuità dell’eloquio musicale essa consente di contrarre ed espandere il periodo musicale al servizio dell’azione scenica e di conseguenza di ampliare il respiro della scena alle dimensioni dell’atto. In Puccini il procedimento a mosaico che ne risulta è solo apparente, poiché l’impiego di brevi cellule melodiche rivela a un’attenta analisi un comportamento mai casuale ma sempre meditato che non lascia traccia di suture.

Tale procedimento si basa principalmente (ma non esclusivamente) sull’uso di temi ricorrenti. A tal proposito le analogie con il Leitmotiv wagneriano sono state più volte sottolineate dagli studiosi. Tuttavia Puccini traduce il significato dei temi-guida ovvero Leitmotiven attraverso propri raffinati procedimenti basati sull’arte delle durate e del tempo, che si affidano a quella tela di ragno che è la memoria auditiva sommersa. Nel teatro di Puccini la nuova valutazione della consistenza del tempo nella genesi e nello sviluppo di caratteri e situazioni, e il senso della durata psicologica si ricollegano per certi aspetti alla celebre distinzione della memoria volontaria e della memoria involontaria enunciata da un suo contemporaneo, il filosofo Henri Bergson: ogni percezione occupando una certa durata, partecipa della memoria; la percezione concreta risulta dunque da una sintesi del ricordo puro e della percezione pura che si esplica nel “ricordo immagine”; il passato agisce inserendosi nel presente, ove il ricordo, attualizzandosi, ridiventa percezione. I Leitmotiven pucciniani non tengono al guinzaglio la memoria dell’ascoltatore, ma al contra rio vi si insinuano lentamente, come per via inconscia. Non invocano, come in Wagner, un ascolto cosciente, riflessivo, ma implicano piuttosto un ascolto subcosciente, emozionale. Una colpa? un merito?

La risposta implicherebbe comunque un giudizio di tipo moralistico. E la pruderie in arte, nel teatro soprattutto, si sa, è dei deboli di spirito.

Nel presentarsi quasi accidentalmente, come tessere di un mosaico, o meglio come cellule connettive del tessuto narrativo del discorso musicale, i temi ricorrenti in Puccini non sembrano denunciare a tutta prima una valenza drammaturgica immediatamente percepibile. Appaiono e scompaiono per riaffiorare fugacemente nel corso della vicenda drammatica acquistando via via referenze sempre più esplicite, fino a caricarsi, verso la catastrofe, di una densità di sensazioni e di significati che ce ne rivela alla fine la loro vera funzione espressiva. L’etichetta di “verismo” applicata al teatro di Puccini risulta dunque del tutto impropria. Esso teatro è meno teatro dell’osservazione (conforme i canoni dell’estetica naturalista, che pure Puccini sembra apparentemente applicare) e assai più teatro dell’emozione (in direzione di tanta estetica simbolista di quegli anni).

La dimensione del testo scritto è del tutto insufficiente all’analisi estetica di un’opera musicale, tanto più quando si tratta di musica per teatro. L’ascolto, in particolare l’ascolto globale, vale a dire effettuato direttamente dal vivo, in teatro, è in grado di rivelare elementi strutturali che lo spartito a tutta prima non sembra denunciare. Si è accennato alla mobilità dei ritmi e delle transizioni armoniche. All’interno di questa mobilità agiscono altre componenti che rivelano nella melodrammaturgia pucciniana un’importanza sostanziale e decisiva. Un aspetto dell’arte di Puccini che finora non è stato preso in debita considerazione riguarda l’espansione in senso verticale della struttura compositiva e al suo interno l’uso del timbro in rap porto ai parametri di altezza, di intensità e di durata. Da un’armonia espansa ottenuta attraverso altezze sonore non vicine e percorse da brevi durate ritmiche derivano maggiore coscienza e rilevanza tutte le diversità timbriche che la compongono. A differenza di un’armonia compatta e del colore strumentale ‘globale’ che ne consegue, la struttura compositiva di Puccini si basa prevalentemente su un’armonia insta bile a disposizione larga che si apre in ampiezza in modo da valorizzare i singoli colori timbrici. A livello di struttura compositiva i valori armonici e quelli strumentali si compenetrano pertanto fra loro in modo tale che non è possibile scinderli come entità autonome. L’uno argomenta l’altro. Lo strumentale non è dunque ‘veste’ esteriore o abbellimento del pensiero melodico-armonico, né mero esercizio virtuosistico fine a se stesso, ma risponde alle esigenze della struttura compositiva stessa, è sostanza del discorso musi cale, una sostanza peraltro dagli effetti così squisita mente armoniosi, dai risultati così seducenti da trarre in inganno sulla sua vera natura e funzione.

La disposizione larga delle armonie in senso verticale e l’alternanza di contrazioni e distensioni foniche che Puccini opera per scelte armonico-timbriche sembrano smentire la tanto conclamata consanguineità del suo teatro con l’opéra lyrique francese (Bizet, Massenet, ecc.), ma ne rivelano semmai i debiti verso Wagner, successivamente verso Debussy, e ne denunciano una certa consonanza con l’arte di Mahler. Certamente tale tecnica compositiva esprime un carattere affatto originale nel modo di fare teatro in musica, lontanissimo (per non dire antitetico) da quello non solo dei colleghi della cosiddetta “giovine scuola” cui il compositore lucchese viene generalmente associato, ma anche della successiva generazione italiana “dell’Ottanta”; una tecnica e una tendenza estetica, quelle di Puccini, che già partecipano della nuova sensibilità musicale dei grandi compositori del Novecento, da Strawinsky a Bartók, da Schönberg a Webern. E ciò con buona pace di tutti quegli addetti ai lavori che non hanno saputo tollera re il cantore di Mimì se non come espressione di una cultura piccolo-borghese dedita al canto delle piccole anime… Se mai un addebito è possibile imputare a Puccini è forse quello di troppa modestia, di aver cioè talvolta sottovalutato le potenzialità che la sua stessa sensibilità musicale era in grado di esercitare in rapporto all’espressione drammatica, non arrischiando (lo dico sottovoce e senza troppa convinzione) soggetti meglio adeguati per ricchezza e complessità di contenuti alla magistrale tecnica compositiva di cui era fornito e allo straordinario intuito teatrale, tutto orientato verso orizzonti d’avanguardia.

 

 

 


 

 

CONTINUA A SEGUIRCI SUI SOCIAL

www.diastemastudiericerche.org

YouTube

Facebook

Instagram

 

 

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e di profilazione. Cliccando su accetta si autorizzano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su rifiuta o la X si rifiutano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su personalizza è possibile selezionare quali cookie di profilazione attivare.