di Luigi Lera
7 – Caselle
In termini rigorosi, osserva Platone, anche la misura o battuta non è altro che l’ennesimo fossile grafico offertoci dalla storia della notazione musicale: è una trasformazione dalle antiche caselle che ripartivano le intavolature per liuto e per tastiera. La differenza sostanziale consiste proprio nel diversissimo contenuto di tecnologia musicale, usiamo pure questo utile concetto, che la battuta è in grado di veicolare. Le caselle raggruppavano la scrittura in unità convenzionali da due tempi al fine di facilitare i conti di chi eseguiva la musica: erano destinate alla realizzazione per così dire meccanica di un pezzo, prodotta da un solo esecutore su uno strumento (liuto o clavicembalo) che era prima di tutto incapace di riprodurre i testi intonati dai cantori. La divisione binaria veniva per lo più applicata a posteriori per intavolare un brano che era stato originariamente notato, e senza dubbio anche composto, in base a procedimenti suoi propri da un autore che non sentiva neppure il bisogno di prendere in considerazione una esecuzione strumentale solistica. Rifletteva un semplice calcolo di comodo: il suo scopo era quello di dividere la grafica di un brano in singoli spezzoni né troppo larghi né troppo ristretti in modo da aiutare l’occhio a decifrarne il contenuto. Aveva la principale caratteristica di essere completamente indifferente allo svolgersi della musica, sia per quanto riguarda la disposizione delle frasi che per quanto attiene alla collocazione delle cadenze. In un certo senso scaricava sull’abilità dell’esecutore l’intero compito di trasformare in vera musica la sua esecuzione; un compito neppure troppo impegnativo che i liutisti e i tastieristi del tempo saranno certamente stati in grado di assolvere in modo più che soddisfacente.
In linea di principio le caselle sono un sussidio puramente meccanico, come le tacche di un carillon, e sono per definizione completamente neutrali di fronte alla struttura musicale di un pezzo polifonico. Non è neppure necessario saper decifrare l’intavolatura per vedere che nessuna tra le stanghette di questo breve esempio si propone espressamente di veicolare un qualsiasi significato: quella che cade tra la quarta e la quinta casella non si preoccupa di andare a coincidere con un vistoso cambio di armonia, l’ultima della prima riga introduce un fraseggio che viene replicato identico tre caselle più avanti ma a partire da una posizione ritmica esattamente opposta. Le probabilità che una qualsiasi linea verticale sia effettivamente pertinente al tessuto musicale che sta suddividendo ricadono in sostanza, ed è una certezza indiscussa, nella dimensione statistica della più pura casualità.
A voler essere sinceri, e senza togliere nulla a quanto stiamo dicendo, le eccezioni esistono. Nel repertorio delle intavolature strumentali l’eventualità di trovare una singola casella che spezza l’andamento binario ampliandosi a tre tempi, oppure riducendosi a un solo tempo, non è neppure tanto infrequente: la seconda di queste due righe ne offre già un esempio con la sesta casella. Queste occasionali modifiche hanno in effetti un carattere che è davvero intenzionale e che va direttamente contro alla logica stessa della casella, perché hanno precisamente lo scopo di far coincidere meglio la scrittura con lo svolgimento del periodo musicale; la modifica è rivolta in questo caso a chiarire il movimento cadenzale che conclude la ripresa della ballata di Verdelot.
Il nostro esempio si riferisce a una celebre trascrizione per liuto e voce, pubblicata a Venezia nel 1536, relativa a http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/verdelot/afflitti-spirti-miei; quello che stiamo prendendo in considerazione è il movimento tra 27 e 30. La divisione in caselle sta qui rispettando la cesura che separa le due mutazioni, ma se si esamina l’inizio della ripresa da 71 in poi la neutralità di fondo di tutto il sistema grafico ritorna subito a essere evidente: da qui fino alla conclusione del pezzo la distribuzione delle stanghette si presenta esattamente invertita rispetto a quella che compariva in 7 (quarta casella) e nelle frasi successive.
L’indifferenza che è tipica delle caselle si conserverà a lungo negli anni successivi al Rinascimento, anche quando la battuta si sarà imposta come il principio universale di organizzazione della musica: la ritroveremo negli stili più legati a quelle che erano ormai divenute le forme tradizionali di un lontano passato. Può essere sufficiente prendere in esame il Clavicembalo ben temperato di Bach, ad esempio il secondo volume, per riconoscerla appena sotto la superficie delle tecniche contrappuntistiche.
– fuga II in do minore. Il soggetto coincide con la battuta di quattro quarti e l’intera esposizione rispetta questa distribuzione; i successivi episodi (fa minore da 10, sol minore da 14 con soggetto per aumentazione) mantengono l’assetto ma l’ultimo stretto che segna il ritorno del do minore introduce un momentaneo andamento sfasato ben evidenziato dalle isolate crome del Basso.
– fuga IV in do diesis minore. Il soggetto ha una disposizione ternaria per cui le prime due parti si sfasano tra loro, sia nell’esposizione iniziale che nella contro-esposizione di battuta 16.
– fuga V in re maggiore. Ancora una disposizione ternaria che genera uno sfasamento nelle cadenze a re di battuta 6 e a la di battuta 7. Le sezioni successive si distribuiscono con un certo riguardo alle battute ma in qualche caso, come la cadenza a la di battuta 20 e quella a fa diesis di battuta 27, finiscono per disporsi fuori fase. Una coppia di movimenti sfasati introduce anche la sezione dello stretto finale che non riesce più a riportare in assetto la cadenza conclusiva.
– fuga VI in re minore. La conclusione sfasata è innescata dall’ultima enunciazione del soggetto nella parte acuta, che si dispone in maniera esattamente opposta rispetto all’esposizione iniziale di battuta 1.
– fuga VII in mi bemolle maggiore. Il soggetto abbraccia sei battute e potrebbe essere suddiviso in unità da due; lo stretto conclusivo tra Soprano e Basso genera uno sfasamento che manda ancora in posizione debole la cadenza finale.
– fuga IX in mi maggiore. La sezione iniziale dovrebbe ripartire il soggetto in battute da tre semibrevi; terminata l’esposizione le cadenze principali tendono a coincidere con la battuta ma la conclusione del pezzo, complice l’ultima enunciazione del soggetto al Basso, risulta essere irrimediabilmente sfasata.
– fuga XIV in fa diesis minore. La complessità del contrappunto produce una grande quantità di singole cadenze (battuta 11, battuta 16, battuta 20) e di intere sezioni disposte in posizione sfasata rispetto all’indicazione di tempo; lo stretto finale è disposto in fase rispetto all’armonia ma il Soprano ha un assetto ritmico esattamente opposto rispetto ai due primi ingressi di battuta 1 e di battuta 4. La cadenza conclusiva conserva una distribuzione sfasata.
La vera novità dell’altra musica del Seicento, ad esempio di quella delle arie d’opera e dei brani strumentali per solista, consiste nel fatto che le battute non sono più neutrali nei confronti della musica: invece di essere una semplice guida per l’occhio hanno acquisito una inedita significatività nei confronti dell’andamento accordale. La loro prima funzione è divenuta quella di raggruppare insieme una certa serie di tempi, vale a dire una serie di multipli dell’unità di movimento, in vista della possibilità di conferire un senso musicale a questa distribuzione grazie a una attenta gestione dei cambiamenti armonici. Il passaggio dalla neutrale casella alla funzionale battuta coincide con l’introduzione di tutta una precisa serie di nuove tecnologie musicali.
È giunto il momento di tornare al repertorio rinascimentale e alle procedure che noi adottiamo per metterlo in partitura; non sono passati neppure due secoli da quando queste musiche hanno cominciato a essere riscoperte ma un provvisorio bilancio delle tecniche che abbiamo provato a applicare in questo lasso di tempo è già largamente tracciabile. Le nostre edizioni hanno visto il diffondersi e il tramontare di tutta una serie di soluzioni inadeguate, dalle aggiunte arbitrarie dei revisori ai loro fantasiosi suggerimenti di natura dinamica e agogica; hanno visto passare di moda le trasposizioni in toni giudicati più adatti alle esecuzioni amatoriali, vedono ormai in via di esaurimento le varie pratiche di dimezzamento e di quadripartizione delle figure che erano ancora una pratica corrente fino a pochi decenni or sono. Una sola caratteristica tra tutte quelle codificate da Haberl quando trascriveva Palestrina alla fine dell’Ottocento sembra ancora essere stabilmente in uso: la polifonia rinascimentale viene ancora trattata come binaria, vale a dire viene trascritta dividendola per due.
Che senso hanno le ripartizioni binarie che applichiamo alla polifonia rinascimentale? A rigore delimitano una serie di caselle, completamente indifferenti alla sostanza musicale delle composizioni che ripartiscono. Gli stessi editori che le adottano sono ben consapevoli di questa loro natura; non si sognerebbero mai di metterla in discussione, neppure nei casi in cui arrivano a percepirla come una oggettiva limitazione. La si accetta in qualità di male minore: eliminare le stanghette non è una soluzione, si osserva giustamente, perché la loro presenza è una diretta conseguenza della disposizione in partitura; e altrettanto giustamente si teme che collocarle in una qualsiasi altra distribuzione, più o meno riconoscibile o prevedibile, faccia immediatamente ricadere tutta l’edizione nel campo dell’arbitrario e dell’opinabile.
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Per quanto riguarda gli esecutori moderni, semplici amatori ma purtroppo anche titolari di fior di contratti con illustri case discografiche, siamo costretti a riconoscere che le caselle binarie sono una fonte perenne di fraintendimenti e di confusioni: la tentazione di considerarle battute e magari di tradurle in accenti intensivi è irresistibile e si nasconde dietro ogni angolo di qualsiasi esecuzione moderna. Si tratta di curiose battute da due tempi che si presentano completamente prive di frazionamenti: contengono quasi sempre solo quattro minime, raramente arrivano a marcare tutte e otto le semiminime, non segnano praticamente mai tutte le sedici crome. In qualche misura impediscono di cogliere l’intenzione degli autori, tanto è vero che producono esecuzioni piatte e inespressive che sembrano viaggiare con il freno a mano tirato: il loro inevitabile effetto sembra essere quello di far scivolare l’unità di tempo verso figure che in realtà dovrebbero avere il ruolo di sottomultipli. Strane battute decisamente prive di riscontri in qualsiasi repertorio storico, inesorabilmente inadeguate nel loro micidiale mix di uno schema ritmico moderno applicato a una pratica musicale che delle tecnologie ad esso correlate era completamente all’oscuro. La battuta impone di considerare un certo numero di multipli dell’unità di tempo, un ragionamento che il Rinascimento non è mai arrivato neppure a concepire; dovrebbe aiutare a cogliere la logica di un brano ma questa logica non corrisponde mai a quella messa realmente in atto dal compositore.
Proviamo a essere sinceri con noi stessi, se continuiamo a trascrivere in questo modo la polifonia rinascimentale è soltanto per una forma di pigrizia. Stiamo semplicemente applicando una serie di parametri che sono stati elaborati dalla filologia musicale dell’Ottocento: a quel tempo si pensava che dividere in battute la musica, una qualsiasi musica, fosse un procedimento legittimo e del tutto naturale. In quegli anni A. Dechevrens e G. Houdard trascrivevano in battute perfino il canto gregoriano: i canoni della musica occidentale venivano del resto applicati senza alcuna esitazione a tutte le musiche che provenivano da altri contesti, fossero semplicemente periferiche oppure di origine extra-europea. Si dava per scontato che il sistema musicale dell’Occidente, in quanto perfetto di per sé, fosse il miglior tramite per poter dare una dignità scientifica a qualsiasi repertorio che suonasse minimamente come primitivo o esotico.
Gli etnomusicologi hanno da tempo superato senza rimpianti questo tipo di impostazione: se una musica appartiene a un mondo lontano, che magari non conosce per nulla le pratiche dell’Occidente e i suoi schemi espressivi, è profondamente errato provare a usare le figure e i segni di tempo della musica occidentale per fissare sulla carta i suoi documenti. Bisogna avere il coraggio di elaborare caso per caso le risorse grafiche che possano essere adatte a rendere giustizia ai meccanismi e ai procedimenti di quella musica e di quel repertorio. Nel caso della musica rinascimentale noi ci stiamo ancora ostinando in questa imperdonabile leggerezza: mettiamo in guardia i nostri studenti ripetendo a ogni passo che la musica di quei tempi è profondamente diversa dalla nostra e poi pretendiamo che sia trattata seguendo rigorosamente i canoni di scrittura codificati dalle istituzioni scolastiche ministeriali negli ultimi anni dell’Ottocento. Non possiamo davvero lamentarci se le nostre trascrizioni fanno nascere tantissimi cortocircuiti nella testa di chi prova a estrarne un senso.
Fino a che punto si spingono le tecniche armoniche a disposizione di un musicista rinascimentale? Molto più in là di quanto si potrebbe credere, ma non ancora o non sempre nella direzione di una costante coincidenza con lo scorrere del tempo.
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/arcadelt/quant-e-madonna-mia
In questo madrigale Arcadelt colloca un vistoso cambio armonico a Sol in corrispondenza della sesta sillaba del secondo verso, “se pur de la mia morte ingorda siete”: il passo non fa che mettere in rilievo una parola adeguandosi alle consuetudini del nascente madrigale, ma subito dopo il compositore decide di introdurre un effetto particolare. Le due sillabe morte e ingorda, che nella metrica dell’endecasillabo dovrebbero fondersi per sinalefe in una sola unità, vengono separate aggiungendo un tempo in 15-16. Si tratta in sostanza di mettere in musica una sillaba in più: il testo viene qui considerato come se fosse in prosa. Potrebbe sembrare un modo di derogare all’ideale madrigalistico di aderenza alla poesia, ma in effetti il passo si muove in una direzione che finirà per avere molta fortuna nel corso di tutto il secolo: con il passare degli anni questo genere di licenze sarà inteso come una attenzione ancor più scrupolosa alla sostanza del testo poetico. Quattro versi più avanti il compositore decide di ripetere per intero la frase, e si tratta anche qui di uno stilema molto apprezzato nelle prime fasi del Madrigale, ma a questo punto si trova di fronte a una difficoltà. Il nuovo testo, “e quel che vive deve morir anco”, non presenta incontri di vocali e quindi non può essere artificialmente dilatato a dodici sillabe. Arcadelt decide allora di creare una efficace antitesi tra “morte” di 14-15 e “vive” di 53-54 anticipando l’armonia di Sol sulla quarta sillaba del verso. Per realizzare il suo intento egli ridistribuisce con cura i movimenti delle parti: accorcia di due sillabe l’armonia di Re presente tra 11 e 13 e aggiunge una sillaba all’armonia di Do tra 15 e 16. Il risultato finale è visibile tra 51 e 56: pur distribuendosi nel medesimo spazio di sei semibrevi, l’armonia di Re occupa due tempi e le successive armonie di Sol e di Do ne prendono quattro.
La capacità di intervenire consapevolmente sui movimenti verticali è il risultato di un lungo processo che inizia a prendere forma fin dalle origini stesse della pratica polifonica. Il musicista rinascimentale sa operare un attento controllo sui processi armonici, ma è anche vero che lo applica soltanto caso per caso e situazione per situazione; non gli verrebbe mai in mente di replicarlo a intervalli di tempo ricorsivi e sempre uguali. È tuttavia dal suo lavoro che matureranno le tecniche su cui Mazzocchi, Luigi Rossi e Pierfrancesco Cavalli costruiranno il loro linguaggio musicale: se le stanghette che compaiono prima degli asterischi nei nostri due esempi non vogliono limitarsi a replicare le neutrali e sterili caselle delle intavolature strumentali, se scelgono di voler prefigurare le funzioni accordali e fraseologiche che tra meno di un secolo confluiranno nelle battute dei primi ariosi, allora non possono fare altro che imparare a spostarsi in conseguenza della diversa durata dei movimenti armonici.
Per contattare Luigi Lera: luigilera@libero.it