di Angelo Foletto
(articolo pubblicato nel n. 4 della rivista musicologica Diastema, gennaio 1993, rubrica “Speciale Rossini”)
Transunto di rancio libretto, scritto a Dresda per mettere in ridicolo i costumi degli amanti e de’mariti italiani: così egli [il sig. Rossini] ha voluto folleggiare con sé medesimo facendo un po’il pazzo amoroso colle bellezze delle precedenti sue composizioni. L’Italiana in Algeri aveva bisogno di un marito: ed il fecondo ingegno del poeta e del maestro han servito da testimoni a maritarli col Turco in Italia. Il signore Rossini senza dubbio è un genio per la musica: ma questa volta ha voluto essere un genio mediocre.
La spiritosa ma acida citazione è tratta dal Corriere delle Dame del 20 agosto 1814. Fa riferimento al debutto del Turco in Italia, avvenuto al Teatro alla Scala, il 16, con alcuni mesi di ritardo rispetto alla prevista data primaverile (ma, come si dirà, in quei giorni la situazione politica nel Lombardo-Veneto non era delle più fluide). In locandina, c’era un cast vocale che oggi farebbe impazzire i mass-media. Al centro due star indiscusse: Francesca Maffei Festa era Fiorilla e Giovanni David Don Narciso. Accanto a loro Filippo Galli già acclamato nell’Inganno felice, nella Pietra di Paragone e nell’Italiana in Algeri era Selim, Luigi Pacini, padre del futuro compositore, e Pietro Vasoli (coppia vincente nella Pietra di paragone due anni prima) erano Don Geronio e il Poeta Prosdocimo; Adelaide Carpano era Zaida.
La citazione rappresenta bene l’accoglienza fredda alla nuova fatica rossiniana comunque in scena per tredici recite, fino al 6 settembre e compendia il complesso delle reazioni dell’ambiente musical-intellettuale milanese in un istruttivo miscuglio di moralismi semplicistici e di irritazioni per il sospetto di leso sciovinismo meneghino.
Il moralismo espresso dal foglio milanese suona non molto diverso da quello che pesò nel giudizio negativo che Beethoven dedicò al mozartiano Così fan tutte, capostipite della messa in ridicolo degli amanti, con strumenti machiavellici equivocabili. Nel nostro caso, la presa di distanza pare riflettere anche la mutata situazione politica locale. Pochi mesi prima s’era concluso il regime napoleonico: il 28 aprile gli austriaci avevano fatto ritorno nella capitale lombarda, dando vita a una prevedibile stagione di Restaurazione (da luglio, ad esempio, la censura fu alle dirette dipendenze del capo del governo). 1 Al mutato clima sociale poteva aver dato sui nervi la vicenda del Turco in Italia che a onta del titolo non era pittoresca e gioiosamente spensierata — come nell’Italiana in Algeri — ma gettava uno sguardo indiscreto sul quotidiano annoiato e sciocco di una famiglia di notabili italiani di Sorrento colti in atteggiamenti non proprio edificanti.
La storia «tutta borghese» (Giovanni Carli Ballola) e le frequenti soluzioni narrative realistiche impiegate in questo libretto — che tuttavia continua a chiamarsi “dramma buffo” — non può che lasciare interdetti i cronisti teatrali solleticati dai residui libertini e pittorescamente settecenteschi della trama ma allo stesso tempo messi in fibrillazione moraleggiante dalle stesse situazioni. Al proposito possiamo offrire un’altra lettura eloquente. Due giorni dopo la ‘prima’ in un gustoso pezzo anonimo in cui l’autore si cimenta in una cronaca imitando lo stile di Lawrence Sterne, il Corriere milanese sintetizza il soggetto:
chi fosse curioso di conoscere i personaggi, stia bene attento: una donna vana, capricciosa, infedele, che ha un amante segreto, un amico palese e un marito imbecille, forma il nodo di questo moralissimo dramma; e credete che questa donna e questi uomini siano tartari o chinesi? No signori sono italiani: i forastieri almeno riconosceranno che non vogliamo adularci.
Insomma l’idea di una vicenda giostrata attorno al carattere leggero e disponibile d’una donna italiana, ambientata in un palazzo borghese di villeggiatura nella campagna napoletana, con una piccola corte di mariti placidamente (fino a un certo punto per la verità) cornuti, poeti parassiti, cicisbei sopportati, frotte di zingari e principi turchi, pare proprio disdicevole. Oltre che inadatta per un’opera buffa che si rispetti.
Anche nelle celebri memorie teatrali di Carlo Ritorni il caso Turco in Italia è presente: le critiche più circostanziate riguardano il soggetto («tema peregrino»), le inverosimili pretese del libretto di conciliare situazioni da opera buffa con quadri di costume («ridicolo a’nostri giorni che una signora venga fuori dalla porta a parlare cogli amici o col popolo delle sue disgrazie») e l’«imitazione fredda» della musica.
E siamo alla seconda ragione di scetticismo — non possiamo parlare certo di insuccesso: nessun resoconto accenna a rimostranze del pubblico — che da allora ha pesato sulle sorti esecutive, e più avanti sulla fortuna critica del Turco in Italia soltanto in tempi recenti ristabilita. Sulla questione dell’offeso orgoglio scaligero, ci fornisce precisi ragguagli un cronista non sempre attendibile ma d’eccezione. Stendhal, in Vie de Rossini, annota:
I milanesi fecero un’accoglienza molto fredda al nuovo capolavoro di Rossini. L’orgoglio nazionale era offeso. Affermarono che Rossini aveva copiato se stesso.
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Ecco il punto. Il pubblico scaligero, dimentico del fresco innamoramento rossiniano con La pietra di paragone (meglio nota come Sigillara, 1812), non riesce ad appassionarsi a questa seconda novità comica. La partitura del Turco in Italia è considerata di routine. Una parafrasi dell’Italiana in Algeri. Ai sussiegosi spettatori, parve che libretto e musica avessero troppe parentele col già sentito: «Ci si poteva permettere tale libertà con i teatri dei piccoli centri; ma per la Scala, il primo teatro del mondo, andavano ripetendo con enfasi i buoni milanesi, bisognava fare qualcosa di nuovo».
Mentre se si legge con attenzione l’efficace testo del Romani, come non devono aver fatto i “buoni milanesi”, si comprende subito che il lavoro è originale e che l’aggettivo sostantivato del titolo non è che un vezzoso omaggio all’antica moda turchesca. Un travestimento, null’altro. Un costume folkloristico tagliato sul dongiovannismo rapace del principe. Così come il canovaccio narrativo, a ben guardare, prende le distanze dalle buffonerie esilaranti dell’Anelli. Scopo del racconto non è approdare a una burla boccaccesca come quella dei Pappataci.2 Ma piuttosto indagare con garbo e tanta ironia nella dimensione sentimentale autentica di personaggi che nonostante le apparenze — non meno del costume: turco o zingaro che sia — sono altra cosa rispetto alla tipologia operistica buffa da cui derivano. E la musica non manca di sottolineare tale novità testuale: crepita meno che nell’Italiana, epigono della comicità sonora settecentesca — e archetipo di un’effervescenza umoristica astratta e meccanica, che troverà nel ritmo surreale e marionettistico delle comiche del cinema muto l’unico suo accettabile e futuro corrispondente — ma in più momenti anticipa la svolta sentimental-espressiva del Barbiere di Siviglia (1816), di Cenerentola (1817), della semiseria Gazza ladra (1817), culminata in Le comte Ory (1828), regalo rossiniano al miglior Donizetti, a Bizet, e a tutta la storia dell’operetta, da Offenbach in poi.
In questa prospettiva si può attribuire la causa della minore popolarità del Turco in Italia3 alla sua posizione delicata e cruciale nell’ambito dell’evoluzione del teatro comico. Poiché nella sua collocazione ambigua tra restaurazione e avanguardia, l’opera fa presagire sia la fine del teatro buffo in musica — il certificato di morte lo firmerà tre anni dopo lo stesso Rossini con Cenerentola — che la svolta geografico-professionale d’autore.
A seguito dei tepori scaligeri e dell’insuccesso veneziano del Sigismondo (1814), il compositore in Italia troverà asilo alla propria arte esclusivamente a Roma e Napoli. Torniamo, però, alla prima verifica, quella della lettura. Il giovane Felice Romani, obbedendo a una pratica consueta (che diventerà regola professionale. Con una sola differenza: all’inizio di carriera sono parafrasati classici soggetti postmetastasiani, più avanti toccherà soprattutto a testi francesi contemporanei) confeziona il libretto tenendo sott’occhio un lavoro precedente. Si tratta dell’omonimo Turco in Italia, scritto nel 1788 da Caterino Mazzolà poeta di corte di Dresda — noto oggi al grande pubblico quasi unicamente per il rifacimento, da Metastasio e per Mozart, della Clemenza di Tito — al cui testo 4 Romani si rifà spudoratamente nelle prime scene, seppure aggiungendo al conto dei personaggi Don Narciso “cavaliere servente di Donna Fiorilla, uomo geloso e sentimentale”.
Il poeta rossiniano si distacca progressivamente dal canovaccio del Mazzolà, in particolare intervenendo nella struttura narrativa. Sostituendo la scansione a recitativi-e-arie con numeri a più voci. Slegando la presenza dei personaggi dalla funzionalità strutturale e cementandola all’intreccio. Il risultato fu un testo al quale praticamente mancano le grandi arie (tranne quelle necessarie per tratteggiare il caratterino di Fiorilla) ma viene continuamente sospinto avanti dai pezzi d’assieme verso il settimino con coro Gran meraviglie che sigla il primo atto e il grande quintetto Oh! Guardate che conclude virtualmente l’opera. Questa irresistibile scena di smarrimento collettivo che Romani ritaglia su misura per Rossini è inventata di sana pianta (in Mazzolà c’era un macchinoso espedimento basato su un finto avvelenamento e un successivo ‘viaggio’ oppiaceo, al termine del quale le coppie si riconciliavano un po’passivamente). Altrettanto originale è la sortita solistica della mortificata Fiorilla, tradotta in partitura nel patetico recitativo obbligato che fa caricaturale anticamera alla aria Squallida veste bruna.
Non è invece invenzione romaniana, come s’è pensato fino a qualche anno fa prima che Bruno Cagli risalisse all’originale di Mazzolà, la figura pre-pirandelliana del Poeta. Romani però ebbe il merito di riconoscerne la gustosa fisonomia di cronista attore — e insieme amministratore — della commedia, e di farne un protagonista, seppure confinato in gran parte nella dimensione del recitativo e di insinuatore di ensemble.
Prosdocimo, notaio di un’intrigante teatro-nel-teatro nel Turco è una sorta di casalingo deus ex-machina: accelera a seconda dei casi i chiarimenti e gli equivoci, dà il tempo alle scene chiave, motiva anche i passaggi meno verosimili della storia con le esigenze e le aspettative del futuro suo dramma. In più, attraverso la sua simpatica e pettegola onnipresenza tiene reciprocamente aggiornati, in tempo reale, tutti i personaggi sull’evoluzione sentimentale dell’intricata vicenda.
Il suo è un ruolo chiave. Al punto che anche la primadonna Fiorilla, nella penultima scena, si sfoga senza soggezione davanti a lui. Subito dopo, è lui a spiegare a Geronio a che punto era il pentimento e cosa avrebbe dovuto ora fare per riavere quella “cornacchia spellacchiata” di sua moglie. Per tutto il libretto Prosdocimo cammina su un crinale teatrale sottile: da un lato partecipa in prima persona al dramma buffo in modo che tutti i personaggi lo hanno come confidente, dall’altra suscita le occasioni per il suo “bel quadro tratto dal vero” con consumata anima registica e cinismo elegante, che pare allevato alla scuola degli amanti di Don Alfonso.
I suoi “a parte”, segnati tra parentesi librettistiche, alcune brevi ed esilaranti considerazioni di estetica teatralletteraria, paiono il logico seguito alla messa alla berlina della letteratura bassa e prezzolata, esercitata già attraverso la presa per i fondelli delle figure di Pacuvio e Macrobio nella Pietra di paragone, trionfale precedente scaligero nell’ambito comico. Evidentemente scribacchini e aspiranti poeti — insieme agli amanti inefficienti, come Don Giocondo e Narciso — erano un obiettivo prediletto dalla satira borghese e una caricatura gradita al pubblico operistico.
Di originale in questo nuovo Turco in Italia c’è una maggior considerazione del poeta-confidente per i casi d’amore (Romani se ne ricorderà al momento di disegnare il burattinaio Dulcamara?) che pur rimanendo confinato dalla partitura nei quadri di collegamento viene profilato con costanziale simpatia e ricopre un ruolo teatralmente insostituibile. L’ammicco finale ne riassume la portata drammaticamente ingegnosa, riportando nel contempo il suo personaggio nel quadro della tradizione dell’opera buffa: intrattenitore di famiglia. «È l’intreccio terminato/ Lieto fine ha il dramma mio/ E contento qual son io/ Forse il pubblico sarà.»
Del resto, senza andare alla ricerca di ponderose riflessioni critiche, Prosdocimo rappresenta sussiegosamente – anzi impersona — la nuova concezione comica cui Rossini e Romani (nella Pietra di paragone l’opera di svecchiamento venne inaugurata dal librettista Romanelli) daranno voce: «Ho da fare un dramma buffo/ E non trovo l’argomento!/ Questo ha troppo sentimento/ Quello insipido mi par». Nella scena d’apertura interpreta l’arrivo degli zingari come il quadro ideale per la “bella introduzione” — su questa frase, più volte ripetuta, ora quasi sillabata ora usata come pedale per il breve pezzo d’assieme, Rossini costruisce il delizioso primo numero – e pregusta già il seguito: «Ah! se di questi Zingari l’arrivo/ Potesse preparar qualche accidente/ Che intrigo sufficiente/ Mi presentasse per un dramma intero!/ Un bel quadro farei tratto dal vero».
In sintesi, ecco l’epigrafe estetica del Turco in Italia. equidistante sia dal sentimentalismo tardosettecentesco, che dai soggetti ridotti a formule comiche ripetitive: “dal vero” è l’ispirazione migliore. «Atto primo. Scena prima/ Il marito con l’amico…/ Moglie…Turco…grida…intrico …/ No, di meglio non si dà» canterà il Poeta nel terzetto Un marito scimunito.5 L’interesse per un racconto segnato dal realismo sentimentale, frutto di una sottile evoluzione (teatrale e sociale al tempo stesso) rispetto ai canovacci usurati dell’operismo buffo di impronta italo-napoletana, era già alla base dell’abile libretto del Matrimonio segreto di Cimarosa. L’opera preferita da Rossini — secondo la celebre testimonianza stendhaliana – venne ispirata dall’omonima commedia borghese di Colman e Garrick: il testo del Bertati, e le seduzioni del teatro comico francese contemporaneo — discretamente circolante anche in Italia — divenne un modello arguto. Presente già negli atti unici veneziani, in occasione dei quali il compositore aveva avuto la ventura di lavorare con librettisti teatralmente avveduti e culturalmente curiosi.
Lo spostamento di prospettiva — cui si sottrae soltanto quel miracolo d’elettrizzante comicità e macchiettismo pervasivo ch’è L’Italiana in Algeri — è facile da registrare allorché si noti nel Turco la propensione del musicista e del letterato locale a dare quasi per scontate le tipologie caratteriali storiche. Inclinazione compensata dalla «voglia di scrutare per il buco della serratura in certi interni familiari — mogli e mariti, zii e nipoti, tutori e pupille, amici di casa, gente che va e viene — con occhio pronto a coglierne, al di là del fatterello necessario per imbastire un intreccio purchessia, quel colore sociale e ambientale che l’ordinaria commedia in musica dell’ultimo Settecento (fatte salve illustri e ben note eccezioni) aveva perduta di vista, catturata nei meccanismi del generico» annota Giovanni Carli Ballola. Che va anche oltre, scrivendo:
Il Turco in Italia si direbbe miri a recuperare attraverso il riso delle bergsoniane funzioni conoscitive del sociale così efficacemente esperite nelle precedenti esperienze comiche [gli atti unici veneziani definiti alla francese]. Senonché, di contro all’impaziente approccio dell’esordiente, qui la presa di conoscenza con la realtà raggiunge la finezza, il disincanto a quel tipo di spirito serio-comico, quello sguardo gettato all’interno dell’animo umano che sono gli strumenti di lavoro del vero compositore buffo.
La prova definitiva delle originali intenzioni degli autori si ha ragionando sulla struttura musicale complessiva dell’opera — organizzata, s’è detto sopra, in successione quasi ininterrotta di numeri collettivi che favoriscono la pittura d’ambiente, agganciando la dinamica sentimentale dei singoli personaggi a una concezione non individualistica — nonché sull’impiego di uno stile vocale equivoco ma drammaticamente efficacissimo e d’avanguardia. Rispetto all’Italiana, esplosiva barzelletta turchesca affidata a una tavolozza belcantistica e strumentale da stordimento, la scrittura del Turco esibisce finezza e spirito ma poggiando su una scintillante e aristocratica conduzione delle parti musicali. L’adozione affettata della coloratura sperimentata da Isabella e Mustafà, qui lascia il posto all’uso perspicace e parsimonioso. Un inesauribile repertorio tematico dipinge ogni situazione: mutano gli scenari e i sentimenti, vengono create soluzioni inventive sempre nuove.
Protagonista più delle voci, tuttavia impegnate senza risparmio, è l’orchestra, che di rado si accontenta di assistere alla commedia. I disegni strumentali, le modulazioni improvvise, le ossessività lievi degli accompagnamenti obbediscono a un progetto d’insolita varietà e pertinenza espressiva. Nasce uno stile per così dire conversativo: declamati o sillabati, ricamati sul tessuto cangiante dell’orchestra. C’è già tutto il meglio della comicità di Don Pasquale, ma anche la vena malinconica in cui è intinto quel soggetto apparentemente divertente e ancora comico.
Geronio, con le sue tardive sollecitudini amorose ma anche con una reattività sconosciuta agli sdruciti marititutori d’un tempo, è il portatore d’una comicità non marionettistica e umana. L’emersione, nei pezzi d’assieme, della sua volontà di riconquista è un dato di consapevolezza affettiva su cui gli autori non scherzano: il disorientamento goffo del Quintetto (fotografato pateticamente dall’instabilità tonale dell’insistente balbettio angosciato di Non conosco più mia moglie ) è riscattato magicamente dalla musica. Alla fine dell’opera comprendiamo che i gabbati sono l’amante istituzionale e quello esotico, non il vecchio marito (sei anni di matrimonio), rivelatosi di più trepidante ardimento rispetto all’“uomo debole e pauroso” definito dal frontespizio.
Non gabbata, se non negli affetti autentici anestetizzati dell’atteggiamento fatuamente procace, ma sconfitta è Fiorilla. Costretta a recitare la parte contrita e a indossare la “squallida veste e bruna”, cavandosi gli abiti luccicanti della maliarda. Quanta sornioneria musicale nell’ultima aria, costruita con gesti e tonalità da tragedia raciniana ma rischiarata dall’inserzione degli interventi dell’immancabile Poeta e del coro, in una scenetta di partecipazione colloquiale — solidarietà emotiva da quartiere verrebbe da dire — che, al di là della fisionomia moralistica non rilevata dagli arguti censori della prima, è di per sé un bel pezzo di teatro di costume (con buona pace del Ritorni che la trovò sconveniente). Di straordinaria efficacia per completare il profilo caratteriale della protagonista è il contrasto con la spumeggiante cavatina in la maggiore Non si dà follia maggiore che aveva fatto da corteo all’ingresso coloratissimo della “capricciosa ma onesta” Fiorilla.
Ma cadremo in contraddizione con quanto detto, a seguire singolarmente i personaggi nel loro percorso musicale-espressivo. La fortuna del Turco in Italia è, paradossalmente, la sua scarsa popolarità. Non ci viene così tolto il piacere di ascoltarlo come se fosse quasi la prima volta. Con la voglia di farsi sorprendere a ogni pagina, con la disponibilità a leggere dietro i costumi dei personaggi tratti di toccante verità sentimentale e al di là dei numeri operistici, montati con vertiginosa progressione di dinamica teatrale e musicale, il fuoco divampante della migliore vena creativa rossiniana.
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NOTE
1 Ogni stato italiano aveva la sua, di censura. In un allestimento al romano Teatro Valle nell’Ottobre 1819, l’opera venne rappresentata con l’edificante titolo di La Capricciosa corretta.
2 Tre sono i numeri musicali non di mano rossiniana: tra questi c’è il finale Atto II. Indizio non secondario del disinteresse d’autore per il convenzionale lieto fine.
3 In pratica l’opera vivacchiò ai limiti del repertorio, presentata in una versione corretta, basata sulla ritraduzione italiana d’una rimaneggiatissima versione francese del 1820 — quasi un pastiche — per tutto l’Ottocento. Latitò invece nel nostro secolo. La sua riconsiderazione iniziò nel 1950, a seguito del celebre allestimento romano, al Teatro Eliseo, con Maria Callas e Gianandrea Gavazzeni (poi registrata durante la ripresa scaligera del 1954). Nonostante i tagli, la partitura usata in quell’occasione era abbastanza attendibile. L’edizione critica, a cura di Margaret Bent, è stata pubblicata dalla Fondazione Rossini nel 1988.
4 Tra i musicisti che usarono il “dramma buffo in due atti”, Franz Joseph Seydelman che lo battezzò a Dresda nel 1789 e Franz Xaver Süssmayr (Praga 1894) Mazzolà aveva già collaborato nel 1791 redigendo i recitativi secchi della Clemenza di Tito.
5 Vedi nota 2.