di Luigi Lera

 

6 – Battute

 

 

Se davvero vogliamo evitare di farci trascinare fuori strada dal senno di poi, osserva saggiamente Aristotele, quello che dobbiamo fare a questo punto è andare a esaminare gli sviluppi della tecnica musicale nei secoli successivi al Rinascimento: se riusciamo a renderci conto di quali sono state le novità elaborate dalle prossime generazioni allora abbiamo qualche speranza di non darle per scontate quando ci rivolgiamo indietro al repertorio che ci interessa. Abbiamo detto che gli schemi mensurali che regolano le nostre battute si fondano su una serie di potenti risorse ritmiche, metriche e fraseologiche: proviamo a chiarire insieme questo concetto.

 

 

Quali sono le novità presenti nella scrittura di questi due brevi estratti dal Terzo libro della canzonette (1666) di Maurizio Cazzati? Sono tante e di tante nature: le indicazioni di genere e di andamento, la scansione del tempo binario che scivola verso la semiminima, la presenza delle cifre sovrapposte al basso, le legature di valore e di portamento; sono nuovi anche i significati assunti dalle indicazioni mensurali, soprattutto nel primo caso che reinterpreta un antico segno di proporzione. Ma il dettaglio che salta subito agli occhi è la presenza delle stanghette verticali.

 

Le stanghette ci informano prima di tutto che questa grafica è organizzata in un modo che non è più quello tipico del Rinascimento: quella predisposta da Cazzati è infatti una partitura. La scrittura incolonna una serie di parti che nella realizzazione ordinaria del pezzo dovrebbero essere affidate a esecutori diversi; il suo scopo è quello di permettere a una sola persona, che sia il maestro concertatore o un esecutore abbastanza abile da potersi accompagnare da solo, di leggere contemporaneamente tutto l’insieme degli elementi che concorrono all’esecuzione. La presenza di linee verticali non è una novità ed è anzi un elemento irrinunciabile di qualsiasi partitura, fin dai primi esempi redatti nel XII secolo: non si tratta soltanto di un utile aiuto per guidare l’occhio del lettore ma di qualcosa di molto più complesso che ancora una volta sottintende una tecnologia consapevolmente orientata verso un certo scopo. Da quando esiste la polifonia le linee verticali assolvono alla precisa funzione di indicare con chiarezza quali sono le note che pur appartenendo a parti diverse operano nella stessa fase ritmica.

 

Possiamo far iniziare questo frammento della nostra Storia nella Roma dei primi decenni del Seicento: i musicisti che stavano confezionando i primi melodrammi si erano ormai resi conto che la ricetta elaborata dai loro colleghi di Firenze era assolutamente inadatta a allestire uno spettacolo gradevole e appassionante. Il recitar cantando dei primi melodrammi si basava su una strana e innaturale dissociazione: si proponeva di concentrare tutto quanto di interessante era stato elaborato dalla musica rinascimentale (in termini di cromatismi, salti melodici, dissonanze armoniche, frazionamenti ritmici e via dicendo) in una sola parte, quella del solista, e di relegare sullo sfondo tutto il resto. Lo scopo era quello di produrre un ritorno alla monodia “pura”, nell’idea di ricreare la presunta capacità di muover gli affetti che gli eruditi si ostinavano a attribuire solo e soltanto alla musica dell’antica Grecia. Poiché tuttavia questo ritorno alla monodia tout court non era concretamente proponibile, dato che cinque secoli di sviluppo ininterrotto dell’arte musicale avevano finito per rendere irrinunciabili tutte le potenti risorse generate dalla tecnica armonica, i cambi di accordo e il gioco reciproco delle parti interne non potevano semplicemente scomparire: dovevano essere presenti ma dovevano fare in modo di restare per così dire al di sotto della soglia di percezione, cercando semplicemente di non farsi notare. In altre parole la musica rimaneva polifonica ma doveva cercare di far credere al suo pubblico di essersi ridotta a un canto monodico.

 

Il proposito era ambizioso ma i risultati, come succede quando si pretende di pianificare il futuro a tavolino, erano assolutamente deludenti: in mano a un Monteverdi questa ricetta poteva anche riuscire a produrre irripetibili capolavori, ma per creare un efficace nuovo genere di spettacolo tutto il procedimento era quanto di più innaturale e di meno interessante si potesse concepire. I musicisti romani si resero pienamente conto di quello che Mazzocchi chiamava il tedio del recitativo e furono costretti a grattare il barile delle tecniche rinascimentali per trovare una soluzione. Ci dovettero pensare a lungo, scavalcando tutte le alternative non abbastanza promettenti (usare la melodia, usare il testo, metterci i cori, metterci i balli…) e cercando di comprendere quale era la direzione in cui avrebbero dovuto cominciare a pensare per aprire a tutta la musica una prospettiva davvero nuova. Alla fine una soluzione si fece strada: qualcosa di mai tentato prima si poteva ottenere applicando una serie di inediti criteri ai movimenti armonici.

 

Nello stile rinascimentale i cambiamenti dell’armonia sono liberi, vale a dire si producono dove e quando il compositore decide di applicarli. Non c’è modo di prevederli e del resto nessuno avverte la necessità di fare una simile operazione: la musica si ascolta nell’attimo in cui si svolge. Gli eventi armonici possono essere riconosciuti ma la facoltà di prevederli è ridottissima.

 

http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/arcadelt/o-felici-occhi-miei

 

Nelle ultime due righe di questo madrigale Arcadelt conduce l’armonia con estrema disinvoltura: alcuni accordi durano una semibreve, alcuni ne durano due, alcuni occupano soltanto una minima e parecchi altri, a partire da 64, si alternano sullo spazio di una sola semiminima. Il gioco estetico sembra essere quello di tenere desta l’attenzione dell’ascoltatore sorprendendolo piacevolmente a ogni passo, ma non quello di concedergli la facoltà di prevedere quello che sta per succedere: per chiamare in causa una facoltà come la memoria dei suoi destinatari l’unica risorsa che il compositore si riserva è ancora quella di ripetere alla lettera una intera frase, un artificio che risale almeno ai tempi del canto gregoriano.

 

La nuova soluzione fu invece quella di concedere agli ascoltatori del XVII secolo la facoltà di prevedere i movimenti dell’armonia: per ottenere questo risultato era sufficiente applicare un procedimento in apparenza piuttosto rigido e schematico ma dotato del pregio di essere facilmente percepibile, quello di impegnarsi a cambiare l’accordo a intervalli regolari. All’interno dei pentagrammi comparve immediatamente la linea verticale che a sua volta assunse rapidamente tutte le valenze di una nuova risorsa tecnologica: segnalava infatti il punto in cui il pubblico poteva cominciare a aspettarsi un cambio di accordo. Il segno aveva già acquisito la prima funzione della moderna stanghetta.

 

Per evitare che la sua musica suonasse troppo statica il compositore poteva in ogni caso contare su una serie di risorse aggiuntive che erano già state elaborate nei secoli precedenti: era in grado di spostare il basso con una serie di scambi, producendo quello che noi chiamiamo un rivolto

ma sapeva anche far percepire alcuni accordi come secondari e subordinati rispetto a quello che cadeva in corrispondenza dell’intervallo temporale prescelto.

Per un musicista del Rinascimento le linee verticali apposte da Maurizio Cazzati sarebbero apparse sorprendenti tanto quanto, ecco che riemerge il filo del nostro discorso, un aeroplanino di carta che scivolasse in volo attraverso la sua stanza. Non è un caso che tutti i repertori della “musica classica”, in qualunque modo li vogliamo classificare, prendano a formarsi esattamente in questi anni: se guardiamo a come il nostro panorama concertistico raggruppa i generi della musica, prima della comparsa delle stanghette sembra esistere soltanto il mondo oscuro e indistinto della “musica antica”. Quella appunto a cui noi fatichiamo a dare un senso.

 

La questione è importante e merita di essere approfondita. Abbiamo detto che le linee verticali di separazione sono poste a intervalli regolari: non si tratta di spazi sulla carta ma di grandezze misurate in termini musicali. La somma dei valori presenti tra una stanghetta e l’altra rimane sempre costante: il compositore è sempre libero di distribuire le figure come desidera ma deve attenersi al criterio di far cadere la fine della battuta, vale a dire l’istante in cui un qualsiasi accordo smette di esercitare la sua autorità e cede il passo alla prossima armonia, dopo un certo numero di tempi o di accenti che si ripetono sempre nella stessa successione.

 

Le parole che stiamo usando non appartengono più al Rinascimento, anzi appartengono al mondo della teoria musicale moderna: come tutte le parole della teoria sottintendono anche loro una serie di significati e di tecnologie che dobbiamo saper riconoscere. L’immagine che noi ci facciamo del ritmo musicale chiama in causa concetti molto complessi e la nostra didattica, tanto per cambiare, difficilmente li sa spiegare nei termini che sarebbero corretti: la teoria della musica, bisogna farci l’abitudine, è sempre inadeguata. La scuola è fatta da uomini: usa le parole che qualche maestro del passato ha trovato efficaci per far afferrare il concetto a tutti coloro che quella musica devono comprenderla ed eseguirla, ma al di là di questo risultato non può fermarsi a riflettere troppo sull’effettiva pertinenza dei termini su cui si appoggia. Quanto ai nostri pronipoti, meglio non provare a chiederci che cosa capiranno quando leggeranno di una serie di accenti che si possono distinguere in forti o deboli: se vogliamo sperare che possano comprendere la nostra musica ci conviene augurarci che in un lontano futuro gli rimangano le tracce audio da ascoltare, se non altro perché questa è una fortuna su cui noi di fronte al Rinascimento non possiamo purtroppo più contare.

 

La battuta non sarebbe altro che l’insieme di un certo numero di movimenti forti e di movimenti deboli; l’andamento ritmico consisterebbe in una serie di accenti strettamente ricorsivi ma distinti secondo la loro intensità, ad esempio forte-debole oppure forte-debole-debole oppure ancora forte-debole-mezzoforte-debole. Questo modo di rappresentare la natura del ritmo è magari efficace e convincente ma attenzione, non è affatto reale: si basa interamente su una ben congegnata analogia di percezioni. All’atto dell’esecuzione nessuno si prende la briga di marcare per davvero gli accenti sul piano dell’intensità, tanto è vero che la musica si può benissimo eseguire con un organo o con un clavicembalo oppure con il software di notazione di un computer: tutti strumenti che sono assolutamente incapaci di gestire le intensità del suono.

 

Immaginiamo di entrare in ritardo a un concerto: se l’esecuzione è già iniziata non ci è virtualmente possibile capire se l’organista, e in varia misura anche il flautista o il cembalista o il liutista, stiano suonando la successione

oppure  ;

sempre che non si tratti di una figurazione ritmica ancora più articolata come ad esempio

oppure  .

L’esecutore non può valersi delle dinamiche per chiarire la struttura del pezzo che sta suonando, tuttavia è un fatto assodato che le musiche per organo o per liuto o per cembalo siano pienamente comprensibili: in altre parole, è del tutto risaputo che anche in assenza di variazioni sul piano dell’intensità questi brani riescono perfettamente a trasmettere al pubblico le proprie caratteristiche strutturali ed estetiche.

 

Il merito è forse dello strumentista che marca una serie di accenti fittizi giocando su impercettibili variazioni di durata? Chi ha già risolto la situazione è in realtà solo e soltanto il compositore. In totale sostituzione degli accenti egli utilizza un fattore molto più complesso che è il movimento armonico: la sensazione del ritmo e la percezione della battuta scaturiscono direttamente dal modo in cui le parti interagiscono sul piano verticale.

 

L’elemento che permette di riconoscere un andamento è precisamente la persistenza di un determinato accordo, e dei suoi correlati rivolti o accordi secondari, lungo tutta la durata di una battuta.

 

Questa maniera di organizzare gli spostamenti armonici costituisce la novità più dirompente della musica del Seicento. Ha per conseguenza diretta la nascita delle battute, separate graficamente dalle stanghette verticali; nel giro di pochi decenni finirà per imporre il principio secondo cui le alterazioni transitorie hanno effetto soltanto all’interno di ciascuna battuta. Un accento forte è in realtà una probabilità molto alta di incontrare un cambio armonico di livello strutturale, un accento debole marca una probabilità proporzionalmente più bassa: in termini rigorosi tutto si risolve nei termini di una attenta distribuzione statistica dei cambiamenti di accordo. Le dinamiche non giocano nessun ruolo nel delineare la struttura ritmica della musica occidentale.

 

 

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Puoi scrivere all’autore: luigilera@libero.it

 

 

 

Sul piano stilistico la distribuzione in battute ha come conseguenza l’introduzione di tutta una serie di nuove tecniche che costituiscono la metrica musicale: la divisione in incisi, semifrasi e frasi consente di conferire un senso alla musica coinvolgendo direttamente la memoria musicale dell’ascoltatore in un processo logico sempre più complesso. Con i primi ariosi del Seicento la musica impara a organizzarsi in schemi compositivi di 4, 8, 16 e 32 battute raggiungendo in breve tempo una forma completamente inedita di efficacia artistica.

 

L’inciso metrico corrisponde a una battuta, si compone naturalmente di un battere più un levare ma può anche disporsi in modo opposto in levare più battere; un secondo inciso di risposta ha l’effetto di completare la prima semifrase. La terza battuta non rappresenta più soltanto sé stessa perché il compositore raddoppia immediatamente gli spazi creando tutta una analoga semifrase di risposta; può replicare la successione delle figure, magari variando leggermente qualche elemento, ma potrebbe anche approfittarne per creare un primo contrasto. A questo punto anche la prima frase è completata, ma la novità è che grazie a questa struttura Maurizio Cazzati ha ormai messo il suo pubblico in condizioni di ragionare sulla distanza delle otto battute: la memoria musicale permette agli ascoltatori di confrontare in tempo reale la seconda frase che arriva a questo punto con tutto il materiale sonoro che hanno appena sentito. Non si tratta di una innovazione da poco, perché in questo modo ciascuno può cominciare a costruirsi una sua propria immagine mentale del pezzo; due battute di cadenza portano idealmente il primo periodo alla sua provvisoria conclusione.

 

Quando accosta il secondo periodo l’autore può anche sostituire per intero la prima frase con una sola nota tenuta all’acuto, ma deve avere l’accortezza di mantenerne intatte le proporzioni; a questo punto Cazzati sceglie di replicare quasi alla lettera la seconda frase per riallacciare il filo della memoria e per confermare la pertinenza dell’intera struttura. La semifrase conclusiva si raddoppia ma sposta il punto di cadenza, altra novità importante, sull’accordo del fa: anche la risorsa di un cambio di tono può iniziare a dare il suo contributo per allargare l’orizzonte di attesa e per aprire il pezzo a tutta una nuova serie di ripetizioni e di elaborazioni. Il risultato di tutte queste soluzioni è esattamente quello di permettere all’ascoltatore di interagire con la musica in un modo inedito, vale a dire di poter prevedere lo svolgimento prendendo in considerazione una serie di distanze che si fanno via via più ampie. Da quel momento in poi l’atto di ascoltare la musica sarebbe divenuto un procedimento molto più attivo: le relative tecniche erano ancora tutte da sviluppare ma portarono rapidamente alla grande novità dell’arioso che a sua volta si sarebbe trasformato nell’aria e in tutte le successive forme del melodramma. Per la prima volta nella Storia della musica il movimento armonico aveva trovato il modo di coordinarsi con il tempo.

 

È grazie a queste risorse che l’opera romana ha potuto consegnare il recitar cantando dei primi melodrammi alle soffitte della Storia; è grazie a queste risorse che l’opera veneziana ha potuto imporsi fino a San Pietroburgo ed è grazie a queste risorse che l’opera italiana del Settecento ha costituito la base su cui si è fondata tutta la musica dei secoli a lei successivi. Che si ascoltino le prime sedici battute di Eine kleine nachtmusik o il Valzer della bella addormentata, che si butti l’occhio su uno spartito di Imagine o si accompagni al piano l’ultima canzone che si è fatta apprezzare a Sanremo un unico concetto è immediatamente evidente: la nostra concezione del ritmo non si fonda soltanto sulla facoltà di fissare il conto sull’unità di tempo, ma sulla capacità ben più complessa di organizzare una serie di relazioni fissate e ricorsive che coinvolgono un certo numero di multipli di questa unità. La risorsa che ci permette di realizzare questa intenzione artistica è una gestione accorta e mirata dei movimenti armonici.

 

 

 


 

Per contattare Luigi Lera: luigilera@libero.it

 


 

 

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