di Luigi Lera
5 – Le creature di Jack
A quanto sembra stiamo faticando a capire il senso di tutta un’epoca storica, dice a questo punto Platone: non è una cosa da poco e non possiamo certo permetterci di lasciar scadere la nostra ricerca sul terreno dei gusti personali di ciascuno. Faremo perciò la conoscenza di un personaggio che può venire in nostro aiuto: non si tratta di un compositore ma di una persona che ha dedicato la sua vita a fare qualcosa di molto affine, creare qualcosa che assolvesse allo scopo per cui era stato progettato. Esattamente come fanno i musicisti ha dovuto anche lui imparare a servirsi di certe tecniche, ma ha anche saputo immaginare nuove direzioni in cui applicare le conoscenze già acquisite per produrre risultati inediti e sorprendenti.
Insignito della Spirit of St. Louis Medal dall’American Society of Mechanical Engineers nel 1947 “per il suo meritorio servizio al progresso dell’aeronautica”, inserito nell’International Aerospace Hall of Fame nel 1972 e nella National Aviation Hall of Fame americana due anni più tardi, definitivamente incluso nella National Inventors Hall of Fame nel 2003, Jack Northrop fu decisamente uno dei più geniali e creativi progettisti aeronautici del XX secolo. Dalla sua penna presero forma i profili alari dell’aereo con cui Lindbergh attraversò per primo l’Atlantico e l’aspetto generale del Lockeed Vega di Amelia Earhart; dal suo studio uscirono la prima idea del Dauntless che spezzò l’invincibilità del Giappone a Midway, il disegno del bombardiere A-20 Boston e il progetto del P-61 che fu dal 1944 l’implacabile cacciatore notturno dell’aviazione militare americana.
Tutti questi progetti avevano in comune la volontà di esplorare soluzioni radicalmente nuove: una macchina con un solo paio di ali, un’ala priva di montanti, un bombardiere in picchiata con il carrello retrattile, un ruotino montato sotto il muso, una configurazione a doppie travi di coda.
Negli anni del dopoguerra Jack Northrop continuò a dare vita a progetti futuristici e di grande successo come l’F-89, l’F-5 e il missile Snark; sono sue creature anche il T-38 e l’F-18, due macchine che hanno ormai sulle spalle parecchi decenni di servizio ma che svolgono ancora oggi un ruolo insostituibile.
Un uccello non ha il timone di direzione, che per lui comporterebbe solo un pesante costo in termini di resistenza aerodinamica, ma una macchina volante non può farne a meno perché il timone assolve all’importante funzione di mantenere la stabilità; nel corso della sua lunga carriera Jack realizzò tutta una serie di “ali volanti” che inseguivano l’idea di una macchina aerea così perfettamente calibrata da essere completamente priva dei piani di coda. Passando dalle eliche ai motori a getto le dimensioni dei suoi progetti crescevano in continuazione, da semplici mezzi da diporto fino a grandi bombardieri;
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l’ultimo esponente di questa linea è il B-2 Spirit, il più recente bombardiere americano entrato in linea ma anche l’aereo che detiene la fama di avere le maggiori possibilità di sopravvivere in un ambiente ostile rispetto a qualunque altro velivolo da combattimento.
Nei primi anni Cinquanta, nel corso delle sue riflessioni fatte di calcoli strutturali enormemente complessi, Jack Northrop ebbe una curiosa intuizione: trasferite su piccolissima scala, le caratteristiche che egli stava cercando in termini di leggerezza rigidità e robustezza si sarebbero potute riscontrare perfino in un semplice foglio di carta. Sarebbe bastato conferirgli una sagoma aerodinamica, sarebbe bastato ripartire il suo peso secondo certe proporzioni, sarebbe bastato dargli poche pieghe simmetriche per costringerlo a mantenere una determinata forma; i calcoli continuavano a indicare che con l’aggiunta di una delicata spinta quell’umile foglietto avrebbe potuto benissimo trasformarsi in una vera e propria macchina volante capace di controllare da sé la propria stabilità. Tutto qui: ci voleva proprio Jack Northrop, uno tra i progettisti aeronautici più talentuosi e più competenti di tutto il mondo, per inventare gli aeroplanini di carta.
Nel mondo dell’ingegneria questi concetti possono essere facilmente espressi da una serie di semplici parole: tecnologia, conoscenze, applicazioni, procedure, magari anche know-how. Sono termini che difficilmente ci viene in mente di associare all’arte dei suoni, ma se vogliamo andare avanti con la nostra ricerca è davvero il caso di imparare a farlo. Qualcosa di assolutamente analogo a una tecnologia si nasconde dietro a ogni aspetto della musica, anche il più insignificante, così come si nasconde dietro a ogni oggetto che maneggiamo tutti i giorni; e se anche si tratta di un oggetto in apparenza semplicissimo, fosse pure un sottovaso di plastica, è nostro dovere imparare a riconoscere la complessità delle diverse tecniche che rendono possibile la sua stessa esistenza.
https://www.youtube.com/watch?v=xMvO6yVfPtY
Poteva Mozart aggiungere una batteria al movimento iniziale della sua Sinfonia numero 40? Da buon esperto di turcherie conosceva bene i piatti, i tamburi e le bacchette; aveva di certo presente che cosa è una grancassa, ma poi avrebbe dovuto farsi venire l’idea di suonarla da seduto e soprattutto avrebbe dovuto imparare a suonarla con i piedi; a questo punto avrebbe ancora avuto bisogno di una pedaliera montata su molle d’acciaio e chissà se sarebbe mai stato in grado di puntare su qualcosa di vagamente equivalente facendosi aiutare da chi costruiva i doppi scappamenti per i suoi pianoforti. Ma il punto è che quando anche fosse riuscito a mettere insieme tutti questi elementi gli sarebbe ancora mancato l’ingrediente decisivo: non avrebbe ancora avuto l’idea di quale era il senso in cui doveva pensare per organizzare il suono di questa accozzaglia di strumenti in una maniera che fosse coerente con i suoi ideali artistici.
Anche l’atto di pensare nella direzione giusta è una forma di tecnologia. Non ha importanza quanto sia semplice il risultato finale, per fare un qualsiasi ragionamento che non sia mai stato fatto da nessun altro ci vuole un ingegno dotato di altissime competenze. Che senso ha, si chiedeva Giovanni Bovio commentando Wagner negli ultimissimi anni dell’Ottocento, parlare di musica dell’avvenire? in un simile avvenire senza date e senza contorni può rientrare di tutto, “dal ritorno allo stato di natura all’uomo volante, da una scultura dipinta a una musica parlata”. Le aveva azzeccate praticamente tutte, ma per lui queste immagini erano soltanto una serie di stravaganti iperboli perché anche la fantasia ha i suoi limiti: Giulio Verne poteva pure sognare di mandare tre uomini intorno alla luna ma non è mai stato capace di immaginarsi uno smartphone.
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Qualcosa di assolutamente analogo a una tecnologia si nasconde davvero dietro a ogni aspetto, anche il più apparentemente dimesso, dell’arte musicale. Al tempo di papa Leone X perfino una semplice sensibile, che fosse anche orientata alla più ordinaria tra le finales, poteva costituire un difficile ostacolo se soltanto il contesto veniva esteso a cinque voci:
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/verdelot-2/moneta-signor-mio
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/jean-lheritier/nigra-sum-lheritier
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/jean-lheritier/petrus-apostolus
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/jean-lheritier/nigra-sum-lheritier-2
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/willaert/missa-mente-tota
il fenomeno sconcertante era questo, quando si aggiungeva una quinta parte il tradizionale precetto che consigliava di raddoppiare la terza in cadenza sembrava perdere di colpo tutta la sua comprovata efficacia. Capire che cosa stava succedendo e elaborare una soluzione alternativa fu una faccenda lunga e complessa; dovette passare tutto un decennio e in ogni caso ci vollero davvero le menti migliori per venirne a capo. Parecchi anni più tardi una terza maggiore do-mi poteva ancora avere un suono aspro, più avanti ancora una triade di la maggiore poteva continuare a suonare acerba e dura nel contesto dell’armonia che conclude un pezzo:
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/willaert/aspro-core
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/cipriano-de-rore/o-sonno
man mano che il secolo faceva il suo corso anche queste risorse divennero una a una disponibili ma sempre alla stessa condizione, quella di aver sviluppato le relative tecnologie. Qualcuno doveva riuscire a mostrare in quale modo, con quali accorgimenti, sotto quali condizioni questi nuovi effetti potevano risultare accettabili e convincenti per gli ascoltatori.
La tecnica è sempre importante. Un archeologo che non si curasse di conoscere quali erano le capacità artigianali disponibili all’epoca in cui è ambientato il suo scavo ben difficilmente potrebbe riuscire a dare un senso convincente alle sue scoperte; anche una storia della medicina, o della marineria, o magari delle tattiche militari, non può aspirare a una dignità scientifica se non sa tenere nel giusto conto le diverse possibilità concrete che in qualche maniera costituiscono gli strumenti di lavoro dei suoi protagonisti. Per quanto ci riguarda riusciamo bene a comprendere l’importanza delle procedure tecniche quando facciamo la storia dell’architettura, o perfino la storia della pittura; se tuttavia entriamo nel campo della storia della musica una serie di antichi pregiudizi ci induce a limitare le nostre indagini al campo di quella che il XIX secolo aveva classificato come estetica. Consideriamo ammissibili i collegamenti con la filosofia, il pensiero, le arti figurative, la letteratura, il teatro, perfino le condizioni sociali ed economiche, dei tempi in cui un brano musicale è stato scritto; ma se non impariamo a sporcarci le mani con le possibilità concrete offerte dalle note tutti i nostri sforzi rischiano di rimanere miseramente sterili. Una storia della musica che non sceglie di radicarsi profondamente nello studio delle tecniche che erano effettivamente disponibili nelle varie epoche storiche si trasforma subito in un libro di favole.
Qui perfino tuo figlio si scalda e comincia a elencare le proprie esperienze. A suo dire è sufficiente sfogliare YouTube per trovare canzoni di trovatori vivacizzate da uno scoppiettante tre quarti, o condotte per seste, o armonizzate con eleganti bordoni di toniche e sottotoniche; il tutto mentre un gruppo di graziose fanciulle accenna a elaborati passi di danza e il tamburello sottolinea i passaggi principali con brillanti rullate di sedicesimi. Ti tocca riconoscere che purtroppo ha ragione: quando si vogliono esplorare le musiche di epoche remote il senno di poi è un gran brutto consigliere, può farci credere di essere ospiti presso la corte di Aquitania al tempo delle Crociate quando in realtà ci ha soltanto trasportati in un mediocre luna park di periferia.
Le prime testimonianze di musica polifonica risalgono al XII secolo ma i nostri manuali di storia continuano a retrodatare questa pratica anche fino al IX; è stato il senno di poi, curioso spiritello che assume sempre la forma delle nostre più segrete aspirazioni, a suggerirci di leggere in questo senso la testimonianza delle fonti teoriche. Da tempi molto più antichi di quanto possiamo immaginare ci ha indotti a scorgere chiari accenni alla pratica polifonica in testi e in esercizi didattici che ovviamente non potevano che essere orientati verso direzioni assolutamente diverse. Sappiamo bene che per lunghi secoli nessuno ha avuto la minima idea di quali fossero le tecniche che sono necessarie per realizzare un canto a due voci; ma è ancora il senno di poi a suggerirci che la cosa si poteva fare ugualmente, magari affidandosi a abili cantori popolari che improvvisavano questa pratica per estasiare i loro vescovi. In fondo che ci vuole, sembra essere il ragionamento: basta buttare lì qualche terza parallela un pedale di tonica e una bella settima di dominante, il tutto ovviamente nel IX secolo, per riuscire a chiudere trionfalmente la performance. Facile come piegare un aeroplanino di carta.
Nel mondo della musicologia medievale affermare che un pezzo di straordinaria complessità come il Sederunt principes ha buone probabilità di essere il risultato di una remembered improvisation da parte di quattro diversi cantori costituisce tuttora un punto di vista rispettabile e ragionevole; i nostri manuali si ostinano invece a ripetere che l’autore della musica, perché un nome bisogna pure proporlo, è un certo perotinus. Su un solo punto sono tutti d’accordo, quello di lasciarlo scritto in forma dimessa e con il diminutivo: sarà forse per non disturbare troppo la rassicurante immagine che ci siamo fatti sul suo conto, quella di un geniale popolano che ogni tanto riesce a illuminarsi di una fortunata intuizione creativa ai tempi di Quasimodo e di Esmeralda.
Contro il senno di poi e contro tutte le sue illusioni la nostra unica difesa, l’unico possibile riddikulus è uno studio attento e profondo delle tecniche musicali. Solo in questo modo possiamo riuscire a prendere piena confidenza con una elementare verità, quella che il nostro nuovo interlocutore ci ha appena messo sotto gli occhi: come succede per le creazioni di un inventore, anche nel mondo della musica tutto quello che può essere realizzato dipende strettamente dalle tecnologie che sono in quel momento disponibili. Lo spazio riservato alla genialità occasionale e alle intuizioni lanciate nel vuoto è sempre piuttosto ristretto: è molto più utile orientare le nostre riflessioni a partire dal punto di vista opposto, quello secondo cui in tutte le epoche della storia della musica i risultati più validi e più fecondi sono stati acquisiti dai vari Jack Northrop di quegli stessi tempi.
Possiamo provare a rintracciare perotinus su Wikipedia ma dobbiamo imparare a cercarlo sotto il suo vero nome, Pietro Cantore, per renderci conto una volta per tutte della reale statura di quel personaggio. La lista dei primi autori di musiche polifoniche parte direttamente dal suo predecessore, quell’Alberto di Parigi che fu a sua volta allievo e successore del grande Adamo; prosegue con Fulberto di Chartres e con Atone di Troyes
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xii-secolo/congaudeant-catholici-codex-calixtinus
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xii-secolo/rex-immense-codex-calixtinus
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xii-secolo/huic-jacobo-codex-calixtinus
e poi nel corso dei secoli passa per Pietro Cantore, Leonius, Philippe de Vitry, Marchetto da Padova e Guillaume de Machaut per terminare probabilmente con John Dunstaple: tutti eminenti letterati, scrittori, poeti, teologi, matematici, vescovi, astronomi e tutti annoverati fra i maggiori uomini di cultura della loro epoca.
Soltanto all’inizio del Quattrocento quello che dovremmo chiamare il progresso tecnologico dell’arte musicale iniziò a esigere una esclusiva specializzazione: Dufay e Ockeghem, Obrecht Isaak e Josquin furono apprezzati prima di tutto in quanto musicisti. La loro straordinaria padronanza delle tecniche specificamente musicali lasciò profondamente perplessi gli esteti del tardo Ottocento, ancora troppo inclini a valutare prima di tutto l’ispirazione o l’espressione dei propri mondi interiori; ma a sei secoli di distanza non dovrebbe più costituire un ostacolo per il nostro apprezzamento. Le stesse doti suonano già perfettamente naturali in Lasso Monteverdi e Vivaldi, per non parlare di quanto contribuiscono al nostro altissimo giudizio nei confronti di autori come Mozart Beethoven e Brahms. Né Bach né Giuseppe Verdi fecero mai mistero della loro orgogliosa consapevolezza di saper piegare le note, e di poterle costringere a eseguire la loro volontà, in virtù di un lungo e assiduo esercizio.
Nel contesto del nostro discorso convincersi che un dato periodo storico potesse conoscere e saper applicare idee e concetti che in realtà sono maturati molto più avanti è sempre un errore di enorme gravità. Se vogliamo che la nostra ricerca sulla musica di un tempo lontano esca dal campo dei gusti e delle opinioni personali dobbiamo abituarci a compiere un’operazione difficile, quella di spogliarci del nostro senno di poi e di provare a ragionare con la testa degli artisti di epoche passate. Tutto questo richiede una rigorosa disciplina: nel mondo della musica, così come in quello della progettazione ingegneristica, tutto dipende dallo sviluppo e dall’acquisizione di una fittissima serie di procedure che hanno un carattere strettamente tecnico. L’orizzonte entro cui il compositore può essere capace di spingere il suo sguardo non è infinito; riuscire a non perdere di vista questa lezione significa aver fatto un passo importante nella direzione di capire il Rinascimento. Il nostro prossimo compito è quello di provare a farci un’idea realistica di fin dove si possono estendere i confini dell’immaginario musicale di quel tempo.