di Franco Rovesti

 

(articolo pubblicato nel n. 7 della rivista musicologica Diastema, marzo 1994, rubrica “Analisi”)

 

Molto è stato detto a proposito dei rapporti fra suono/rumore e silenzio. Certamente acuta, pur nella sua brevità, è la trattazione svolta da J.J. Nattiez ne Il discorso musicale (Einaudi, pp. 14 sgg.). In esso si rileva che “vi sono almeno due tipi di silenzi, il silenzio fuori musica e il silenzio in musica e, in questo secondo gruppo, tre categorie: il silenzio considerato parte stessa dell’opera musicale e che viene indicato all’ascolto dello spettatore per i suoni che esso contiene, i silenzi di attesa della musica classica e i silenzi considerati come valori a pieno titolo nella musica moderna”. Sono parole che, pur rappresentando una prima generica introduzione ai problemi più profondi connessi con il fenomeno in questione, tuttavia lasciano subito intravedere una concezione piuttosto approssimativa e limitata riguardo ad alcuni aspetti del silenzio (o della pausa), che invece meritano di essere attentamente indagati in prospettive più ampie. In particolare, la contrapposizione fra i cosiddetti “silenzi di attesa” della musica classica e quelli considerati come “valori a pieno titolo” della musica moderna esige di essere per lo meno integrata da altri dati, se non addirittura corretta in maniera più radicale.

È vero che nella musica classica (ma non solo in questa) la pausa assume spesso un valore espressivo di “attesa” di ciò che seguirà, ma è anche vero che questo stesso senso di aspettativa si carica di una molteplicità di significazioni, che vanno dalla semplice “sospensione” del flusso sonoro (assunta nella piena autonomia di un silenzio considerato per sé stesso) fino alla percezione di una sorta di struttura musicale virtualmente data; la quale, nel momento stesso in cui esprime attesa, si espande anche nelle due dimensioni del presente e del passato: come se il momento attuale del silenzio predisponesse all’attesa di ciò che sarà, attraverso l’eco mentale di ciò che è appena stato.

Analoghe considerazioni (anche se di segno opposto) potrebbero essere fatte a proposito della musica moderna. Qui, però, vogliamo occupare questo breve spazio per approfondire il primo aspetto del problema (la pausa nella musica classica), nel tentativo di contribuire alla messa a fuoco di un fenomeno sul quale si può ancora dire molto.

 

Principale argomento del presente lavoro sarà dunque la trattazione di quelle che fin d’ora indicheremo con il termine di “pause replicanti”. Ma, prima di entrare nel cuore del problema, ci pare opportuno premettere alcune considerazioni, connesse con quei fattori che fanno della pausa un evento strutturante del discorso musicale, e suscettibile quindi di essere inserito a pieno titolo fra gli elementi di una segmentazione per quanto possibile rigorosa e corretta. Certo, non potremo considerare la pausa alla stregua di una vera e propria unità formale, riconoscibile, fra molte altre di dimensioni simili, per gli inconfondibili tratti della sua individualità espressiva; ma ci sembra legittimo assegnare alla pausa il “valore” di un’unità formale, e quindi porre sullo stesso livello strutturale l’evento sonoro e la pausa, come due possibili costituenti immediati di un’unità formale ad essi sovraordinata.

Cominceremo allora col distinguere due diversi tipi di pausa: la “pausa formale” che, per le proporzioni relativamente cospicue della sua durata, può avere il proprio corrispettivo sonoro in quelle che vengono individuate come “unità formali” (siano esse    minime, o di articolazione comunque esigua); e, accanto a questa, la più breve “pausa infraformale”, corrispondente — in termini di durata — a quelle strutture sonore che, per la loro insufficienza a costituire un’unità formale minima, abbiamo scelto di indicare con il nome di “unità infraformali”.

I criteri di individuazione e di aggregazione delle pause nell’ambito di una struttura musicale saranno sostanzialmente gli stessi che ci guidano nella segmentazione e nell’organizzazione gerarchica delle normali unità formali. Ma mentre i fattori demarcativi di un’unità formale sono dati dall’interno della struttura sonora, al contrario, i confini della pausa formale sono segnati dall’esterno, dai margini stessi delle unità sonore adiacenti. Ciò fa sì che la pausa formale, in una considerazione puramente strutturale, si configuri essenzialmente come elemento di demarcazione, rappresentabile sul piano del livello neutro come la durata di un’entità negativa. Ma sul piano dell’espressività, quello stesso segmento appare caratterizzato da una vasta gamma di significazioni, che partendo da un semplice senso di “distanziamento” di due organismi sonori — un distanziamento avvertito come esteticamente bello, o come funzionalmente opportuno — giunge fino alla percezione di un’atmosfera sospesa, carica di aspettativa (sia essa prevedibile o imprevedibile) o, al contrario, ricca di risonanze mentali riferibili al materiale sonoro appena udito. In altre parole, la dimensione strutturale della pausa si può caricare di valenze espressive che ora si caratterizzano soprattutto in senso ridondante, ora in senso entropico.

 

Fig. 1

 

 

Considerando più da vicino i fattori connessi con i problemi della segmentazione, noteremo come non sia possibile una strategia operativa soddisfacente, la quale prescinda da un approccio analitico che integri in una prospettiva convergente i dati del livello neutro con quelli dell’analisi estesica e poietica (ci sia consentito il riferimento a questa tripartizione semiologica la quale, indipendentemente dal fatto di essere accettata da tutti, riassume in sé i diversi ambiti in cui si può articolare la ricerca). Il “continuum” del silenzio, infatti, con la sua indeterminatezza strutturale, ancorata soltanto alla virtuale realtà di una scansione metrica soggiacente, richiede, per un’interpretazione quanto più possibile corretta, l’ausilio di tutte le risorse analitiche a disposizione del ricercatore. In estrema sintesi, possiamo così riassumere i problemi posti dalla segmentazione delle pause:

  1. individuazione del tipo di pausa (“formale” o “infraformale”);
  2. assegnazione di un’eventuale “pausa infraformale” alla più piccola unità formale in grado di contenerla;
  3. individuazione del “livello strutturale” a cui la pausa appartiene;
  4. accertamento dell’appartenenza di una pausa formale al contesto di sinistra, di destra o, eventualmente, a entrambi. Quest’ultimo caso implica un fenomeno di “sovrapposizione”, che dovrà essere attentamente verificato: se necessario, anche facendo ricorso ad un’analisi distribuzionale, in grado di mostrare come la pausa in questione sia sempre connessa con il contesto di destra, oltre che con quello di sinistra (evenienza, questa, assai più ricorrente);
  5. ricomposizione di più segmenti pausali contigui in una sola unità sovrasegmentale. Tale continuum, oltre a non coincidere con i confini della segmentazione formale soggiacente, si dispone lungo un asse intermedio, compreso fra il livello strutturale di detta segmentazione e quello immediatamente superiore (si veda più oltre il concetto di “iperpausa”).

Come già si è accennato, il criterio in base al quale stabilire se una pausa possa essere considerata come “formale” o “infraformale” è in qualche modo correlato, con metodo analogico, alle dimensioni delle unità formali minime del contesto circostante. Risulta invece più ardua, talora, l’individuazione del “livello strutturale” lungo cui allineare il segmento della pausa stessa. Il più delle volte appare corretto giustapporre il segmento della pausa formale ai segmenti delle unità formali minime, lungo l’asse del loro medesimo livello strutturale (fig. 1/a). In determinati casi, però, si rivela più logico disporre il segmento della pausa in questione lungo il livello strutturale di organismi formali dotati di un ben più elevato grado di articolazione (fig. 1/b). Da un punto di vista funzionale, infatti, talune pause sono assimilabili a certe unità formali assai brevi ma che, per la loro funzione di “raccordo” fra sezioni formali altamente articolate, occupano il livello strutturale di queste ultime (si pensi al caso di alcuni brevissimi ritornelli strumentali, posti fra le varie sezioni vocali di un’aria d’opera). In simili circostanze si danno tre possibili soluzioni: la pausa appartiene al contesto di sinistra (Fig. 1/c), oppure al contesto di destra (Fig. 1/d), o ancora ad entrambi, per effetto di un fenomeno di “sovrapposizione” (Fig. 1/e).

 

Senza dilatare oltre il necessario questa serie di considerazioni che, pur nate e sviluppatesi nella prassi analitica, rischiano di apparire qui un po’ troppo schematiche e teoriche, vogliamo ora accostarci in modo diretto a quelle che fin da principio abbiamo indicato con il termine di “pause replicanti”.

Contemporaneamente approfondiremo il concetto di “area di risonanza virtuale”, già più sopra espresso di sfuggita, a proposito di quelle pause che, per le loro particolari dimensioni e per le caratteristiche del contesto sonoro precedente, si rivelano idonee ad evocare in qualche modo il segmento terminale del disegno melodico (o anche solo ritmico) appena risuonato.

Il fatto che esempi di questo tipo abbondino soprattutto nello stile classico e romantico è certamente da attribuire alla particolare predilezione di questi due momenti stilistici per le simmetrie e per le corrispondenze strutturali. Così, anche la pausa viene assunta come elemento dotato di una sua precisa valenza formale; e risulta soggetta alle medesime leggi che, nella microstruttura (ovviamente qui si parla di durate relativamente brevi), governano le unità formali sonore.

Gli esempi 1 e 2 ci forniscono un primo riferimento, di particolare semplicità, su cui basare alcune considerazioni di carattere generale.

 

Es. 1 (L. van Beethoven: Sinfonia n. 7 IV mov.)

 

 

 

Es. 2 (F.J. Haydn: Quartetto op. 76/5 IV mov.)

 

 

 

Si nota subito che nel caso 1 dei due esempi in questione, entrambe le pause “b” son o dotate d i un’estensione tale da poter accogliere, nella durata di un silenzio sovrabbondante, le dimensioni di una struttura ritmica più breve, identica a quella delle rispettive unità sonore che la precedono. Ora, questa considerazione non è volta a risolvere secondo un semplicistico principio di simmetria i problemi di una segmentazione resa difficile dai tratti più o meno lunghi di una struttura apparentemente assente (fatta eccezione per l’implicita, costante pulsazione della scansione metrica). Sembra invece ragionevole ammettere che il riferimento alla struttura dell’unità sonora precedente nasca spontaneo, grazie alla con vergenza di una serie di fattori, basati principalmente sui meccanismi della percezione, sulla conoscenza dei codici stilistici e sulle conseguenti implicazioni di ordine psicologico e culturale operanti in quello che l’Adorno definirebbe “ascolto strutturale”. Tutto ciò pare orientarci senza forzature verso la formulazione di un’ipotesi ad alta attendibilità, e cioè: le pause ora esaminate non solo “possono” includere in sé un’unità ritmica identica a quella della struttura sonora che le precede, ma posseggono “quella” determinata dimensione in quanto esse stesse sono state concepite in modo da contenere virtualmente la replica mentale di tali strutture. E l’attività “formativa” del soggetto interpretante non può sottrarsi all’automatismo di un processo mentale che viene attivato in modo così spontaneo, anche se in parte acquisito attraverso mediazioni culturali di varia natura.

 

 

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Senza soffermarci ad approfondire gli aspetti specifici più direttamente connessi con un’analisi estesica, noteremo qui come i dati — sia pure parziali — di un’analisi distribuzionale confermino questa ipotesi anche sotto la prospettiva incrociata di un’analisi poietica. Il caso 2, infatti, riportato in entrambi gli esempi, mostra come, in un contesto successivo, le strategie compositive dell’autore stesso “riempiano” realmente, o meglio, “sostituiscano” tali pause con una struttura sonora replicante, in tutto simile, appunto, a quella che in precedenza era stata ipotizzata mentalmente come struttura virtuale di una pausa replicante.

Ma l’analisi distribuzionale, pur offrendo importanti indizi circa l’individuazione di una “pausa replicante”, reca pur sempre in sé un margine di incertezza obiettiva in relazione alla possibilità che, in contesti diversi, una medesima occorrenza possa essere seguita da un diverso co-occorrente, inteso come autonoma enunciazione espressiva (anche se in qualche modo derivata da materiale precedente), e non già come chiarificazione dilazionata di una struttura altrove suggerita in absentia.

Per questo motivo sembra oltremodo illuminante un raffronto che sovrapponga due diverse versioni di una medesima opera. In simili circostanze, pur non potendosi escludere la possibilità che l’autore abbia “ripensato” la stessa opera secondo concezioni formali ed espressive diverse, tuttavia è ragionevole ritenere che, in presenza di lievi modificazioni, il compositore stesso abbia sentito di poter chiarire meglio la valenza formale o il senso espressivo di un determinato passaggio, senza stravolgerne o modificarne la fondamentale concezione originaria. Appare chiaro che, qualora il “ripensamento” avvenisse entro questi termini, lo studioso si troverebbe nella privilegiata condizione di poter confrontare con alto rigore di metodo due organismi omologhi di una medesima opera, relativamente a un medesimo contesto: un’operazione che, con metafora geometrico-matematica, avverrebbe certamente fra grandezze commensurabili.

Fortuna vuole che questo privilegio ci venga offerto, nell’ambito della produzione beethoveniana, dalle due versioni del Quartetto op. 18 n. 1 (si veda in proposito Janet M. Levy, Beethoven Com positional Choices, University of Pennsylvania Press, p. 42 sgg.). L’Es. 3 riporta le due stesure di un segmento formale omologo: nella prima di esse troviamo una pausa (“b”), che nella seconda viene invece sostituita da una fievole struttura sonora, riecheggiante l’ultimo segmento di quella appena conclusa.

 

Es. 3 (L. van Beethoven: Quartetto op. 18/1 I mov. versioni prima e seconda)

 

 

 

Non occorrono molte parole per commentare il significato dei due segmenti posti a confronto. J.M. Levy, nel suo citato saggio, introduce un ampio discorso con il seguente titolo: “Un ambiguo silenzio è chiarito dall’aggiunta di un’eco”. A noi, in questa sede, non interessa tanto analizzare le motivazioni di varia natura che possono aver indotto l’autore a modificare la tessitura del brano in questione: piuttosto siamo curiosi di immaginare quale possa essere stato l’atteggiamento dello stesso Beethoven nei riguardi di un’opera, rispetto alla quale il diaframma del tempo (oltre, naturalmente, ad una sensibilità più matura) doveva aver creato una distanza tale da richiedere una sorta di reinterpretazione strutturale e formale. Ebbene, sotto questo aspetto, ed entro questi limiti, pare lecito supporre che un simile atteggiamento mentale non sia stato molto diverso da quello di un qualsiasi dotto e sensibile ascoltatore. In ogni caso, ciò che soprattutto conta, ai fini della nostra ricerca, è il fatto che Beethoven, nell’atto di elaborare la seconda versione di una sua opera, abbia semplicemente sostituito una determinata pausa con l’eco della struttura sonora immediatamente precedente. Quel breve istante di silenzio, definito soltanto dall’inarrestabile pulsare di una scansione metrica sottintesa, parve infatti suscettibile di acquisire una valenza formale esplicitamente espressa. È pur vero che, nella prima versione, le due pause “b” non hanno la medesima significazione espressiva (in effetti, solo la prima possiede le caratteristiche di una vera pausa replicante, mentre la seconda, a causa anche dell’improvvisa comparsa di un nervoso spunto imitativo, si carica di un forte senso di sospensione totale di ogni evento sonoro — reale o virtuale che sia); ma è fuori dubbio che la seconda versione, proponendo un andamento musicale meno incline alle irregolarità di una scrittura frammentaria e imprevedibile, mostri assai bene come una pausa possa essere sostituita da una struttura sonora in eco, che con la sua ridondanza rinforza il senso di una musicalità più uniforme e piana; più ossequiente cioè a canoni compositivi che si ispirano alla regolarità e alla simmetria. E ciò, se si ammette un principio di reciprocità, si presta a dimostrare come anche una struttura in eco — purché di dimensioni molto brevi — possa a sua volta essere sostituita da quel particolare tipo di riproduzione mentale, che trova espressione, appunto, nella pausa replicante.

Tornando a considerazioni di ordine generale, dobbiamo a questo punto osservare come, assai spesso, nonostante sul piano della percezione il fenomeno della “risonanza virtuale” venga riconosciuto con l’immediatezza dell’intuizione, al contrario, sul piano delle proporzioni strutturali, esso venga in qualche modo mimetizzato dalla possibile discrepanza fra il dato fisico e quello mentale: in effetti, il silenzio reale in cui la pausa replicante trova espressione può risultare ora più lungo, ora più breve rispetto alle dimensioni della struttura virtuale in esso percepita.

Ciò dipende da due ordini di fenomeni: la “fusione” di più pause dotate di una loro individuazione strutturale, e l’“accavallamento” nodale nel punto di giunzione fra la pausa replicante e una delle unità formali (o addirittura entrambe) con essa confinanti. Naturalmente, il verificarsi di queste circostanze non impedisce che, nella maggior parte dei casi, le dimensioni della struttura virtuale relativa alla pausa replicante coincidano esattamente con la durata del silenzio reale.

Di fronte a tutte queste possibilità, si può rivelare assai utile una classificazione che consenta di individuare, con precisione e immediatezza, il particolare tipo di segmentazione a cui è soggetto il continuum indifferenziato di un silenzio in cui sia contenuta una pausa replicante. I termini da noi adottati per questa classificazione possono forse suscitare un sorriso (non fosse che per le assonanze con fenomeni di altra pertinenza), e tuttavia non mancano di una certa efficacia mnemonica, o di una giustificazione concettuale.

Il continuum del silenzio sarà dunque indicato come “isopausa”, “ipopausa” e “iperpausa”, a seconda che la durata reale del silenzio in cui si esprime la pausa replicante abbia proporzioni uguali, minori o maggiori rispetto a quelle della struttura virtuale in essa contenuta. A questi si aggiungerà poi il termine di “metapausa”, per indicare non già la durata del silenzio fisico reale, bensì il segmento dell’intera pausa replicante, nei casi di “sovrapposizione” con le estremità del contesto sonoro adiacente (quando cioè la struttura virtuale della pausa replicante si estende “al di là” del silenzio stesso).

 

Fig. 2

 

 

La Fig. 2 esemplifica graficamente quanto ora esaminato. Come si può osservare, entrambi i casi “b” evidenziano i due fenomeni a cui dà luogo l’embricazione fra una pausa replicante e il contesto sonoro adiacente: ossia l’ipopausa (silenzio reale), e la metapausa (struttura virtuale). Per quanto riguarda invece i quattro casi di tipo “c”, possiamo rilevare la molteplicità di strutture in cui è dato individuare l’unità sovrasegmentale dell’iperpausa; una molteplicità che si arricchisce ulteriormente — sotto il profilo concettuale — se, come appare ragionevole, includiamo nella casistica non solo le pause replicanti, ma anche le pause formali in generale, e se inoltre assumiamo in questa categoria anche l’unità sovrasegmentale che risulta dalla fusion e di due pause infraformali appartenenti ad altrettanti organismi sonori contigui (caso “c 3”).

 

A conclusione di quanto finora esposto, riportiamo alcuni frammenti reali, estrapolati da un’unica opera (Es. 4), nei quali è compendiata in modo assai chiaro l’intera serie di fenomeni sopra illustrati. Da una rapida analisi si constata che il caso 1 contiene una pausa replicante (isopausa “b”) la quale, saldandosi con la pausa infraformale “a” (appartenente all’unità successiva), costituisce il continuum dell’iperpausa che ne deriva.

Il caso 2, invece, è riportato solo per il suo valore di verifica e di conferma oggettiva nei confronti della struttura sopra ipotizzata: si rileva infatti che il posto della pausa è qui occupato dalla comparsa differita di quell’unità sonora “a 1”, che nella struttura originaria (caso 1) occupa il registro grave, in concomitanza ritmica con gli eventi sonori del registro medio (notiamo di passaggio che la variante “a 2” — anch’essa riportata nel caso 2 — giustifica, sulla base dell’intercambiabilità di talune strutture “paradigmatiche”, l’opportunità di affiancare al concetto piuttosto limitato di pausa replicante anche quello più generale di pausa formale: in effetti, tale variante libera evidenzia che, anche nell’ambito delle unità formali di tipo sonoro, un’eventuale unità replicante può essere sostituita da un suo equivalente strutturale, espressivamente diverso. Ebbene, applicando questo principio di sostituibilità anche alle strutture virtuali qui esaminate, si vede bene come il concetto più allargato di “pausa formale” vada a coprire quei margini di diversità espressiva potenzialmente contenuti in una pausa replicante. È evidente, poi, che la pausa forma le ha una sua giustificazione autonoma, che va ben al di là della circostanza particolare ora considerata).

Il caso 3, infine, esemplifica assai felicemente un pro cesso di embricazione a catena, in cui sono coinvolte alternativamente unità sonore e unità pausali replicanti, sdoppiate nel duplice fenomeno dell’ipopausa e della metapausa. Il gioco delle simmetrie strutturali appare qui in tutta la sua evidenza, confermando insieme con l’analisi del caso 2 — ma sotto una nuova prospettiva — l’originaria intuizione di “b” (caso 1) come pausa portatrice di una precisa valenza strutturale e formale.

 

Es. 4 (L. van Beethoven: Sonata per Pf op. 10/3 IV mov.)

 

 

 


 

 

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