di Luigi Lera

 

3 – Fossili

 

 

Dunque non esistono regole, provi a obiettare, non esistono elementi oggettivi su cui costruire una didattica? Semicerchio intero, semicerchio tagliato, tutti questi segni sono davvero soggetti a infiniti significati capaci di sovvertirsi completamente perfino nello spazio di poche stagioni? Perché no, risponde Platone, non c’è nulla di strano: forse che quando apri il Clavicembalo ben temperato non trovi fughe misurate sulla semiminima sulla minima e perfino sulla semibreve? Eppure sei in grado di suonarle tutte, ti basta esaminare con un minimo di criterio i valori presenti. No, interviene Aristotele, in un caso come questo è indispensabile procedere con metodo: se vuoi affrontare la relatività dei significati l’unica strada che devi percorrere è quella di assumere quella stessa relatività come oggetto della tua attenzione. Dato un certo autore, un certo genere, un certo ambiente, un certo periodo storico, magari anche un certo stile, i segni di tempo finiscono sempre per assumere un significato che puoi chiamare oggettivo e inequivocabile; per poter formulare un giudizio sicuro devi soltanto imparare a conoscere per filo e per segno tutti i loro possibili contesti d’uso. E questo punto, se ne hai la pazienza, non ti resta che prendere in considerazione una per una tutte le accezioni a cui sono andati incontro i segni mensurali nello spazio di otto secoli.

 

Ti ascolterò volentieri, interviene subito Platone, ma prima concedimi di interromperti ancora una volta. Concentrarsi sui dettagli senza aver compreso il quadro generale dell’argomento che si sta affrontando sarebbe un procedimento altrettanto pericoloso: lascia che io sottoponga alla tua attenzione una particolare qualità che la notazione musicale, qualunque sia la sua tipologia, si porta sempre con sé. Nella scrittura della musica, recita un elementare principio di economia gestionale, tutto deve avere una funzione. Ogni singolo segno veicola un significato, spesso anche più di uno e molte volte, sono sicuro che tu avrai parecchi esempi da suggerire, anche di ordine diverso. Nessuno spreca tempo e denaro per mettere sulla carta qualcosa che non serve a niente: nell’eventualità che un segno perda tutti i suoi significati, magari perché con il tempo una pratica esecutiva è cambiata, quel segno è semplicemente destinato a scomparire. Se tuttavia la musica cambia continuamente stili e risorse, allora ne dobbiamo dedurre che anche gli elementi della scrittura sono soggetti a tramontare e a morire in un incessante processo di ricambio con forme e significati ogni volta nuovi.

 

Poniamo come ipotesi che una data categoria di segni, se davvero possiamo permetterci di dirlo, sia caratterizzata da un significato univoco e essenzialmente specifico. La liquescenza delle grafie neumatiche, la dragma della fine del Trecento, le colorature del Rinascimento, le numerose tavole degli abbellimenti che accompagnano molte raccolte musicali per tastiera tra Sei e Settecento, e così via fino alle istruzioni per interfacciarsi con il mixer analogico che fino a non molti anni fa accompagnavano le carte musicali di chi suonava dal vivo… più un significato è specifico, viene da dire, e più il lavoro dell’esecutore è concettualmente semplice: ogni segno veicola soltanto quel significato, facilmente deducibile dalle spiegazioni fornite dall’autore stesso, e non bisogna fare altro che cercare di riprodurlo correttamente. Non dovrebbero esistere pareri discordanti a proposito del groppolo e della monachina prescritti da De’ Cavalieri, oppure al momento di applicare gli abbellimenti suggeriti da d’Anglebert; il rovescio della medaglia è tuttavia molto meno esaltante, perché nel mondo della musica spesso basta spostarsi virtualmente di venti anni, o di trecento chilometri, perché tutta la fatica di chi ha studiato a fondo queste grafie sia già diventata perfettamente inutile. Più il significato di un segno è univoco, preciso e circoscritto e più quel segno è destinato a essere rapidamente spazzato via dal sorgere di nuovi stili e nuove modalità esecutive.

 

Questo significa forse che la notazione musicale si rinnova interamente e di continuo, in un gigantesco e caleidoscopico nonsense di significati diversi? No di certo. Anche questo non sarebbe economico. Una possibilità di sopravvivere e di conservarsi in nuovi contesti qualsiasi segno musicale, sia esso umile e marginale oppure importante e determinante, ce l’ha sempre a disposizione: una grafia può benissimo trasferirsi su nuove forme e nuovi stili semplicemente a patto di sapersi svuotare del proprio significato e di saper assumere un significato diverso. In questo campo, fatto salvo il principio di fondo, non esistono regole: il nuovo significato può conservare uno sbiadito ricordo di quello vecchio ma può anche cambiare completamente il suo orientamento fino a rivolgerlo in tutt’altra direzione; alcuni vecchi significati possono restare immutati mentre altri si trasformano, nuove valenze si possono sovrapporre pacificamente a quelle già consolidate ma poi possono dare un contributo determinante nel farle inesorabilmente tramontare. Chi possiede appena un poco di competenza musicale non farà certamente fatica a trovare da sé parecchi esempi capaci di illustrare questi processi; ma io voglio invitarti a riflettere su un paio di grafie che forse non hai ancora considerato come dovresti. Prenderemo come esempi una linea, una semplice sottile linea nera orizzontale, e un innocuo banalissimo punto.

 

Verso la fine del X secolo, dopo le ultime scritture diastematiche in campo aperto, una linea orizzontale cominciò a attraversare spavaldamente l’intero specchio della scrittura. Il suo significato era in effetti di vitale importanza: segnalava al cantore che il suono che stava lì, a quell’altezza, possedeva una qualità melodica del tutto particolare. Al di sotto di quel suono lo spazio si restringeva e la nota inferiore doveva essere intonata, in un certo qual senso, più vicina. Con il tempo, e con l’avvento del sistema di Guido d’Arezzo, quel suono avrebbe cominciato a essere chiamato fa; procedendo in senso ascendente lo strano intervallo avrebbe cominciato a essere identificato con le sillabe mi-fa e a essere chiamato semitono.

 

A partire dall’XI secolo si affermò lentamente l’idea di suddividere lo spazio della scrittura musicale in modo ancora più dettagliato: la linea del fa cominciò a accompagnarsi con altre linee, dapprima un segno ausiliario tirato a secco che identificava un analogo semitono una quinta più all’acuto e poi altre due linee, una al di sopra e una al di sotto del segno antico, che identificavano le note che noi chiamiamo la e re. La linea del fa si adattò benevolmente alla presenza delle sue nuove consorelle ma mantenne il suo ruolo preminente: a volte colorata in rosso, più spesso contrassegnata da una lettera f scritta ogni volta che si andava a capo, continuò a svolgere la sua funzione di segnalare con chiarezza la posizione del semitono nei lunghi secoli in cui la didattica rimase fondata sul sistema della solmisazione. La musica aveva nel frattempo elaborato i due opposti sistemi per natura e per bemolle, concedendo l’alternativa di collocare in chiave anche la nuova funzione ausiliaria del b rotundum, ma in entrambi i casi il segno della f non smise di indicare l’esatta collocazione delle sillabe mi-fa: soltanto quando i compositori del primo Seicento cominciarono finalmente a mettere in chiave una serie di due o anche tre o più bemolli, oppure addirittura a introdurre le segnature con i diesis (ai coristi, tanto per non avere preoccupazioni, si mettevano in mano le parti trasposte a distanza di un tono), la linea del fa posta sul pentagramma dovette adattarsi a divenire l’umile chiave di Basso e a abbandonare le sue antiche pretese di segnalare una esclusiva particolarità melodica. Tra i nostri studenti nessuno avrebbe più l’idea di dire che la funzione primaria della chiave di Fa è quella di fissare la posizione del semitono; ma in compenso nelle classi di solfeggio non è difficile imbattersi in qualche anima semplice che scambia la forma stilizzata della F per una specie di grossa virgola accompagnata da due puntini.

 

L’antica funzione del punto di perfezione dovrebbe invece essere assimilata più che altro al moderno ruolo della stanghetta: nei contesti ternari quel punto indicava l’esatta posizione in cui le figure musicali completavano il conto della misura e dovevano ricominciare a numerare i tempi partendo da uno. Sostanzialmente superfluo nella prima metà del XIII secolo, quando le figurazioni in uso erano ancora ridotte a pochi semplici casi, iniziò a giocare il suo ruolo man mano che i compositori escogitavano nuove varianti ritmiche sempre più articolate; era collocato appena al di sopra del pentagramma e si accompagnava talvolta a ulteriori funzioni oggi dimenticate come l’alterazione oppure la trasposizione. Man mano che per effetto dello slittamento dei valori le applicazioni di questo segno si estendevano a figure sempre più piccole, alle semibrevi oppure addirittura alle minime, il punto di perfezione finì per essere incorporato nel pentagramma direttamente a fianco della nota interessata; ne rimase esente la Breve, che fino al Seicento – e alla comparsa delle battute – conservò il suo antico privilegio di poter essere considerata ternaria senza bisogno di altre specificazioni grafiche.

 

In questa forma il punto di perfezione ha attraversato silenziosamente i secoli ed è giunto fino a noi, conservando gelosamente tutte le sue caratteristiche funzionali all’interno di quelle che noi chiamiamo misure composte: stiamo qui parlando di un segno che è rimasto nell’uso corrente, ma abbiamo anche detto che non ci sono regole e infatti in questo caso è stata la didattica a non saper più codificare le sue caratteristiche. Nei nostri manuali di teoria il punto di perfezione non viene mai neppure menzionato: quando si vogliono riferire al suo ruolo gli autori ricorrono sistematicamente a contorte locuzioni come quel punto di valore che indica l’unità di tempo in un movimento composto o in un contesto ternario.

 

 

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Con la metà del Seicento le questioni che riguardano la lettura ritmica sono state largamente ridefinite in relazione alla battuta; nulla di strano che il punto di perfezione sia stato ridotto a una specie di variante del punto di valore, ma in realtà i due distinti segni rispondono a esigenze e funzioni che sono diametralmente opposte. Il punto di valore trova la sua collocazione in tutti i contesti binari, il punto di perfezione si ambienta soltanto nei contesti ternari; il punto di valore marca sempre una posizione forte, sia essa di divisione oppure di suddivisione, il punto di perfezione marca invariabilmente la frazione più debole della ternarietà; il punto di valore è sempre seguito da una posizione debole, mentre il punto di perfezione non può che introdurre una posizione forte. Il punto di valore, da ultimo, è cumulabile: può essere accostato a uno o due suoi simili, ciascuno riferito a un successivo sottomultiplo della figura a cui ha fatto riferimento. Il punto di perfezione è invece sempre isolato, nel senso che qualunque punto gli venga aggiunto non potrebbe che cadere su una posizione forte e provocherebbe una intollerabile confusione di genere.

 

Che tipo di punto è quello mostrato nel prossimo esempio? In mancanza di una indicazione mensurale non è possibile dirlo, perché è proprio il contesto a dettare il ruolo e la funzione. Se la figura di riferimento è soggetta alla suddivisione binaria di un tempo semplice allora il punto sarà di valore, ma se il movimento è composto allora si tratterà di un classico punto di perfezione. Il punto doppio avrà diritto di cittadinanza soltanto nel primo dei due contesti.

 

 

Il punto di perfezione, da ultimo, è orientato nel senso della suddivisione e fatica a trasferirsi sui multipli dell’unità di tempo: è questo il motivo per cui la grafia musicale non conosce il modo di scrivere l’unità di misura relativa a un tempo composto. La minima puntata e la semibreve puntata che si usano nel sei ottavi e nel dodici ottavi sono in realtà due licenze grafiche che non descrivono correttamente né l’andamento della misura né la distribuzione dei suoi accenti.

 

 

Vista da questo angolo, la questione può sembrare priva di importanza; ma il problema risiede nel fatto che sul piano musicale i due diversi tipi di punto continuano a portarsi dietro una serie di significati che sono specifici e insanabilmente opposti tra di loro. Esattamente come la linea verticale, il punto di perfezione è orientato versa l’avanti e non verso l’indietro: non segnala il luogo in cui termina una misura, segnala l’esatta posizione in cui una nuova misura avrà inizio. Non dovrebbe essere visto come una sorta di appendice grafica collocata a seguito di una figura, come succede con il punto di valore, ma come un segno di demarcazione che chiarisce la posizione ritmica della figura successiva. Man mano che lo si applicava a figure sempre più piccole la sua assimilazione alle valenze grafiche del punto di valore fu inevitabile, ma in questo modo qualcosa nella sua definizione funzionale andò inevitabilmente perso.

 

Anche a questo proposito i nostri manuali di teoria musicale non ci vengono incontro, anzi ci forniscono un’immagine pericolosamente falsata. Quando descrivono la natura del movimento ternario ci forniscono lo schema fortedeboledebole, espressione metaforica che in questo andamento è piuttosto inadeguata; i termini forte, mezzoforte oppure debole sono concepiti per descrivere la distribuzione statistica dei movimenti armonici e non prendono in considerazione le suddivisioni. Se guardiamo alla distinzione tra battere e levare allora il modello degli andamenti ternari corrisponde piuttosto alla condizione che gli antichi chiamavano tactus inequalis: in un contesto ternario la disposizione del movimento è quella in cui il battere è disuguale perché vale il doppio del levare. Due tempi, o due frazioni, contro una: è così che i direttori più capaci riescono a dominare senza sforzo questo tipo di andamenti. Lo schema è quello che tutti noi applichiamo, magari senza neppure pensarci su, quando vogliamo trasformare un andamento semplice in un andamento composto.

 

Il nucleo di tutta questa complessa questione sta proprio qui: la musica presenta un gran numero di figurazioni o di particolarità che hanno la caratteristica di dover cadere per obbligo in corrispondenza di una determinata frazione, forte ma soprattutto debole, del movimento. Una appoggiatura deve per obbligo risolvere sulla frazione debole, così come deve fare un gruppetto tra due note o la fioritura di un trillo; lo stesso trillo deve tuttavia arrestarsi immediatamente non appena incontra una posizione forte che non copre interamente un tempo primo. In tutti questi casi una eventuale figurazione puntata non potrà che prevedere due soluzioni differenti a seconda della sua effettiva natura.

Il punto di valore rifiuta tutti gli abbellimenti, il punto di perfezione li attira su di sé e tende se mai a amplificarli: ancora oggi la didattica sconta l’errore di non aver saputo distinguere chiaramente tra le due categorie e produce uno dei capitoli più maldestramente trattati dell’intero suo corso degli studi.

 

Il nostro discorso è andato a finire sulla teoria e sulla didattica: che la scuola sia sempre in ritardo di parecchi decenni sul repertorio che è l’oggetto dei suoi stessi insegnamenti è un dato di fatto assodato. Non si tratta di una colpa ma di un assioma fisiologico, la scuola è fatta da uomini e gli uomini non possono certo pretendere di decidere da sé la validità di uno stile o di un repertorio: devono prima aspettare che sia il Tempo, quello con la maiuscola, a decretarne il valore. Nei nostri Conservatori si insegna Chopin e non si parla mai di J-Ax; la teoria musicale del Rinascimento, allo stesso modo, è sempre pateticamente in ritardo rispetto alla pratica musicale che vuole descrivere e spiegare. Codifica le convenzioni e gli ideali artistici di settanta anni prima senza poter minimamente aver modo di giudicare tra le effimere stranezze veicolate dalla moda del momento e le novità sostanziali che stanno spingendo in nuove direzioni tutta l’arte dei suoni. Sarebbe ingenuo pretendere che un manuale di teoria possa costituire una fonte privilegiata per lo studio delle notazioni antiche, dal momento che in tutte le arti e in tutte le scienze una simile condizione fortunata non si è mai verificata; così come nei nostri testi per le Primarie la sveglia fa ancora tic-tac driiin invece di fare bi-bi-bi, e come il treno fa ciuf-ciuf sbuffando il suo bianco getto di vapore, un’infinità di anacronismi sono da sempre diffusi nei testi didattici e nelle aule scolastiche di tutte le discipline e di tutti i periodi storici.

 

Come può l’autore di un trattato, provi a chiedere, incorrere in un anacronismo mentre pianifica i suoi stessi esempi musicali? Nulla di straordinario, ti rispondono entrambi i tuoi maestri. Se nel campo della notazione musicale antica gli elementi oggettivi non esistono, allora tutto può capitare e ogni possibile imprecisione deve essere messa in preventivo. Che si chiami slittamento o frazionamento, lo spostamento verso nuove unità di tempo è così lento e graduale da non poter mai essere percepito dagli stessi protagonisti di una qualsiasi tradizione musicale: non se ne accorge il compositore, non se ne accorge il cantore, non se ne accorge il semplice ascoltatore, meno che meno se ne può accorgere l’autore di un manuale didattico che ha occhi solo per quello che è stato scritto dagli autori che lo hanno preceduto. E in ogni caso gli infiniti parametri della pratica musicale non si modificano certamente in un qualsiasi modo che possa rivelare una logica o una qualche forma di coordinazione. Prendiamo nuovamente in considerazione il trattato di Giovanni Maria Lanfranco e il paragrafo che riguarda la sincope a pagina 66. L’autore propone a questo proposito un doppio esempio musicale:

 

 

Questi due brevi frammenti di mezza riga ciascuno (chiave di Do in prima linea, melodie in Sol per bemolle; pause iniziali prima di minima e poi di semibreve) hanno il pregio di suonare allo stesso modo ma non descrivono affatto la pratica corrente del 1533: seguono piuttosto le convenzioni che potrebbero essere state in vigore ai tempi di Dufay. La questione riguarda il rapporto tra figure e indicazioni di tempo, è piuttosto importante e merita di essere esaminata. Il testo annuncia chiaramente che nella metà di sinistra saranno sincopate le semibrevi e in quella di destra saranno sincopate le brevi: la differenza viene resa dai due diversi segni mensurali, semicerchio intero a sinistra e semicerchio tagliato a destra. Il tempo si intende misurato, mantenendo ovviamente una velocità costante, prima sulla semibreve e poi sulla breve. Se cerchiamo un riscontro a questi assetti ritmici nel repertorio di quegli stessi anni, possiamo facilmente constatare che nessuno dei due casi qui illustrati si presenta mai: al tempo di Lanfranco la notazione impiegava universalmente l’indicazione del semicerchio tagliato, qui presente nella metà di destra, ma la associava al movimento sulla semibreve che qui è collocato nella parte sinistra.

http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/jean-lheritier/nigra-sum-lheritier

http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/jean-lheritier/nigra-sum-lheritier-2

http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/bernardo-pisano/che-debbio-far-b-p

http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/claudin-de-sermisy/j-ayme-le-cueur-de-ma-amye

http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/willaert/aspro-core

 

Può essere che Lanfranco volesse illustrare una sorta di uso moderno e di uso antico, ma questa distinzione potrebbe valere solo per le figure e non per i rispettivi segni di tempo; leggere i due esempi come se fossero una singola frase, con transizione da una scrittura alla semibreve a una scrittura alla breve, non ci aiuterebbe perché nel contesto della pratica musicale dei primi anni Trenta anche questo spostamento, ottenuto per effetto di un cambio di indicazione ritmica, sarebbe in ogni caso apparso come una rarità di altri tempi. Per trovarne qualche esempio dovremmo comunque rivolgerci a composizioni che appartenevano già a un periodo precedente.

http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xv-secolo/dufay/ave-regina-celorum

http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xv-secolo/josquin-desprez/vultum-tuum

 

Per illustrare la forma ordinaria della sincope ai lettori del suo tempo, o alla nuova generazione di compositori, Lanfranco avrebbe in definitiva potuto limitarsi a scrivere una sola frase così configurata:

 

 

Il fatto è, conclude Platone, che nella notazione musicale occidentale tutti i segni di tempo che rimangono in uso per più di qualche decina di anni cominciano inevitabilmente a trasformarsi in fossili grafici; le due varianti del semicerchio collocate da Lanfranco non fanno eccezione, e anzi non potevano che appartenere già a questa diffusissima categoria da molto più di un secolo e sotto molteplici punti di vista. Per i lettori del 1533 il segno del semicerchio intero, lasciamolo pure in sospeso per un momento, aveva ormai decisamente fatto il suo tempo: proveniva in realtà da un contesto molto antico e da una lontana vicenda storica che saremo presto obbligati a esaminare. Da parte sua il semicerchio tagliato, che aveva indicato tout court l’andamento binario di un brano musicale in un contesto misurato sulla breve, proveniva da parecchi ininterrotti decenni di uso molto intenso; era stato a lungo un comodo riferimento per chiarire tantissimi aspetti, spesso tutt’altro che facili da decifrare, della pratica musicale. Quando alla fine del Quattrocento il movimento era scivolato sulla semibreve i musicisti, molto semplicemente, avevano trovato naturale conservarlo nell’uso; a costo naturalmente di lasciar cadere alcuni tra i suoi antichi significati e di attribuirgliene di nuovi. Nulla di strano o di aberrante, tanto è vero che il corso dei secoli doveva ricorrere almeno un’altra volta a queste comode traslazioni di significato: nella nostra notazione attuale, o per lo meno nelle nostre classi di solfeggio, il semicerchio intero si associa a un movimento misurato sulla semiminima (il quattro quarti) e il semicerchio tagliato si associa a un andamento di minime.

 

Chissà a che punto è il mio ragazzo, ti chiedi a questo punto: provi a bussare e a chiamarlo ma lui non ti apre, è troppo occupato a trascrivere pezzi sempre nuovi e a fare esperimenti. Ha provato a riordinare le battute e ha scoperto che dietro alle composizioni musicali del Rinascimento c’è tutto un mondo: frasi binarie, frasi ternarie, periodi pari e periodi dispari, episodi costruiti sullo spazio di quattro o cinque ma anche di sei o sette tempi, fraseggi asimmetrici e incastri precisi, complesse architetture di suoni. Vuole capire il significato di quello che vede e vuole riuscirci da solo. Finalmente qualcosa si muove, pensi con una punta di orgoglio; ma ti rendi anche conto che prima o poi dovrai pure riuscire a fornirgli qualche risposta. Le cose da dire sono ancora tante.

 


 

Per contattare Luigi Lera: luigilera@libero.it

 


 

 

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