di Luigi Lera

 

2 – Frazionamenti

 

La molteplicità nell’unità. Non mi va bene quello che racconta il mio collega, direbbe a questo punto Aristotele: prima di tutto la scelta dei valori e delle unità di tempo dipende anche dai generi, dagli stili, dalle abitudini dei singoli autori e magari perfino dalle località geografiche. E poi non è neppure vero che lo slittamento dei valori sia un fenomeno così continuo e costante: ci sono rallentamenti e accelerazioni, c’è la dealbazione, ci sono perfino slittamenti all’indietro e fasi storiche in cui il fenomeno si arresta. Tutti dettagli che bisogna conoscere a fondo per poter avere una visione chiara dello sviluppo storico della notazione, di tutta e non soltanto di quella rinascimentale. Ma soprattutto non mi piace l’idea che il fenomeno venga descritto, per così dire, dall’esterno: se qualcosa succede, allora succede per via di una spinta che viene dall’interno della scrittura. L’espressione che dovremmo usare non è tanto slittamento dei valori quanto piuttosto frazionamento delle unità di tempo.

 

Poniamo il caso di un brano musicale in cui il tempo primo si conta sulla semibreve. Poniamo anche che i multipli dell’unità di tempo non costituiscano un problema: al di là della breve e della breve puntata, tutte le altre figure fino alla maxima diventano progressivamente così rare che la loro eventuale difficoltà di lettura diviene subito una questione trascurabile. Il discorso è ben diverso per quanto riguarda i sottomultipli, minima semiminima e perfino anche la fusa.

 

Una singola semibreve si divide prima di tutto in due minime; ma si può anche dividere, quasi con altrettanta facilità, in quattro semiminime. Si tratta di due forme di frazionamento elementari e fisiologiche e la loro applicazione non costa nessuna fatica al cantore.

 

Applicato all’unità di tempo, il punto di valore costringe il cantore a contare un tempo a vuoto prima di procedere con le figure minori e costituisce già un calcolo in più. Ancora più complesso è il caso in cui i sottomultipli si mischiano fra loro: in questo caso la difficoltà del frazionamento comincia progressivamente a farsi sentire.

 

Quando l’andamento della semibreve si trova a essere regolarmente diviso in sottomultipli il conto del tempo comincia a dover tener presente la differenza tra minime dispari e minime pari. Le prime sono quelle che cadono in corrispondenza dell’unità di tempo, vale a dire in quella posizione che la didattica moderna indica metaforicamente con il termine di accento: le seconde sono quelle che permettono di completare il conto della semibreve occupando la frazione debole (altra metafora) del tempo.

 

Fino a quando ciascuna minima continua a essere unita alla sua compagna il compositore è in grado di tenere sotto controllo il frazionamento dell’unità di tempo; il finale dell’esempio precedente ha tuttavia introdotto il caso di una sincope, vale a dire di una semibreve che invece di cadere in posizione dispari ha inizio in corrispondenza della posizione pari. In questo modo la semibreve, invece di accompagnare e confermare la scansione del tempo, comincia a contrastarla: una minima isolata in posizione dispari manda in sincope tutte le semibrevi seguenti fino a quando un’altra singola minima, posta finalmente in posizione pari, non interviene a sanare il conto dell’unità di tempo.

 

La nota sincopata è quella che comincia nella elevatione della misura: perché essa non può quetarsi già mai per fin che essa non trova un’altra nota minore che si accompagna con quella [che è rimasta] dove la detta misura ebbe principio. Et ciò è perché la sincopa non è altro che la riduttione della figura minore, oltre la maggiore [che sta nel mezzo], alla sua compagna per coprire la numeratione della misura.

Giovanni Maria Lanfranco, Scintille di Musica, 1533, p. 66.

 

La sincope costringe chi legge la parte a distinguere con attenzione tra le due posizioni che Lanfranco chiama depositione e elevatione della misura; la didattica moderna userebbe piuttosto i termini battere e levare, vagamente analoghi ma troppo legati alla moderna metafora degli accenti. Per la prima volta, si tratti di un fanciullo cantore del XVI secolo oppure di un corista moderno, la sincope mette l’esecutore di fronte al rischio di perdere il conto della semibreve: in questi casi l’editore di musica polifonica, come avremo modo di vedere, ha almeno la possibilità di venirgli incontro collocando una stanghetta in corrispondenza di una posizione dispari per aiutarlo a non smarrire la scansione del tempo.

 

Per quanto riguarda il frazionamento dell’unità di tempo i due esempi precedenti si sono spinti ancora più oltre, perché nelle due cadenze conclusive la minima in posizione dispari si è già ulteriormente divisa in due semiminime. Le suddivisioni della semibreve possono tuttavia scendere fino a livelli ancora più bassi, prima di tutto frazionandosi fino alla coppia di fusae (in questo contesto si tratta per lo più di semplici abbellimenti) ma anche proponendo figurazioni ritmiche sempre più sofisticate. Particolarmente notevoli sono tutte le varianti della sincope perfidiata, quelle in cui anche una minima puntata si mette a contrastare energicamente l’andamento della semibreve collocandosi in una posizione pari.

Il compositore del Rinascimento ha modo di dimostrare la sua abilità inventando combinazioni sempre più spinte di queste figurazioni. Le semiminime possono diffondersi fino a occupare tutti i movimenti, in una prima fase limitandosi a lunghe tirate per grado congiunto ma successivamente spingendosi a rapidi cambi di direzione oppure a salti su intervalli sempre più ampi; possono cominciare a ricevere una sillaba del testo, non solo sulla prima nota e non soltanto su lunghe tirate all’unisono. Anche la qualità melodica delle singole parti, i frequenti cambi di armonia, l’ampiezza crescente degli intervalli oppure la presenza sempre più fitta di alterazioni e di cromatismi non fanno che costringere chi canta a dedicare sempre più attenzione alla scansione ritmica. Quando tutte queste variabili si estendono alla semiminima, e arrivano di conseguenza a interagire con la fusa, si arriva a un punto in cui il conto sulla semibreve non è più sufficiente a garantire una lettura ordinata e tranquilla: il ritmo collassa su sé stesso e il cantore non può fare altro che cominciare a misurare il tempo sulla minima.

 

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Non è più il caso, conclude sorridendo Aristotele, di scrivere un altro esempio magari efficace ma inventato di sana pianta come certamente farebbe a questo punto il mio collega; i prossimi esempi dobbiamo saperli andare a cercare nel repertorio musicale. La stanza di canzone Se il pensier di Sebastiano Festa,

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assieme a tutti gli altri esempi di quelli che potremmo definire proto-madrigali, si presta a illustrare una fase in cui l’andamento delle figure non interferisce con l’andamento del tempo misurato sulla semibreve. Un analogo tranquillo movimento, in certi casi ancora più disteso, caratterizza composizioni come Divini occhi sereni e Chi non fa prova amore di Verdelot;

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http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/verdelot/chi-non-fa-prova-amore

ma lo stesso autore è capace di spingersi fino a distribuzioni più frammentate come quelle di Quanto sia lieto il giorno, un brano espressamente scritto per il teatro, oppure della canzone Italia mia.

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Nei primi decenni del Cinquecento la spinta verso la minima poteva ancora essere vista come una novità; Verdelot preferisce dare il suo contributo ricorrendo all’antica indicazione del semicerchio intero che per lui aveva il senso, avremo modo di riparlarne, di prescrivere l’andamento alla semibreve ma di non porre alcun tipo di limite ai suoi eventuali frazionamenti. Il risultato è quel Passer mai solitario che il pubblico dell’epoca considerava come un proverbiale esempio di rompicapo ritmico ed esecutivo.

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I madrigali di Arcadelt, possiamo d’ora in avanti chiamarli così perché nel frattempo il genere si era ormai ritagliato una sua identità, esibiscono una “classica” scrittura sotto il semicerchio tagliato anche se a tratti (Ancidetemi pur, Alma perché sì triste…) la distribuzione dei frazionamenti è già tutt’altro che riposante; in O felici occhi miei l’immagine “corro a mirarlo” dà luogo a uno dei primi passaggi in cui il soggetto di un episodio, melodicamente caratterizzato e regolarmente imitato da tutte le parti, è interamente costruito sulla sillabazione della semiminima.

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Quando si parla della scrittura a note nere il ruolo di precursore spetta di diritto a Jacques Arcadelt, ma per arrivare a una situazione in cui il conto della semibreve è veramente spinto ai suoi limiti è d’obbligo ricorrere al celebre passaggio “mille e mille volte il giorno” con cui Cipriano De Rore annuncia davvero tempi nuovi: il brano è Ancor che col partire del 1550.

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Episodi simili ricorrono ordinariamente in tutto il ciclo di madrigali, e si tratta indiscutibilmente di uno dei massimi capolavori di tutto il XVI secolo, con cui De Rore mette in musica la canzone alla Vergine del Petrarca.

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Il passaggio alla minima appare ormai compiuto in un brano come Io mi son giovinetta di Domenico Ferabosco,

http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/domenico-ferabosco/io-mi-son-giovinetta

in cui tutti i singoli episodi scavalcano irrimediabilmente la scansione della semibrevis; la nuova scrittura a note nere prende piede con le prime ristampe di questo pezzo ma segna anche l’avvento, in termini storici sarebbe più giusto dire il ritorno, della segnatura con il semicerchio intero. Un esempio un poco più tardivo di questo stile mette in musica uno dei testi più espressivi di Francesco Petrarca:

http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/pre-nicola/passa-la-nave-mia

il brano è conservato in manoscritto nel fondo dell’Accademia Filarmonica di Verona. L’autore potrebbe essere un arrembante Nicola Vicentino ma l’indicazione del semicerchio tagliato risulta essere decisamente troppo prudente rispetto alle ambizioni che sono espresse dalle parti vocali.

 

Chi non ha familiarità con i cicli ricorrenti del frazionamento, e con le loro costanti alternanze di tensioni e rilassamenti, potrebbe rimanere sorpreso nel vedere l’andamento ormai pacificato di tanti madrigali scritti qualche anno più avanti; una volta che il collasso dei vecchi rapporti si è prodotto, l’andamento delle nuove composizioni si assesta rapidamente sulla figura più piccola e la musica recupera il suo fisiologico tranquillo scorrimento. Ai tempi di Andrea Gabrieli il semicerchio intero aveva assunto il significato corrente, per nulla problematico, di trasferire il conto del tempo sulla minima.

http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/andrea-gabrieli/occhi-sereni

http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/andrea-gabrieli/vorrei-mostrar-madonna

 

La stessa identica distribuzione delle figure si può trovare in Ove d’altra montagna di Orlando di Lasso,

http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/orlando-di-lasso/ove-d-altra-montagna

anche se lassù in Baviera l’autore non si faceva certamente alcuna remora nell’associarla con la tradizionale indicazione del semicerchio tagliato. La via verso un futuro ancora più lontano, in cui la minima si sarebbe prima o poi trovata a dover fare i conti con tante fusae e semifusae sempre più impertinenti, stava giusto per prendere forma nei madrigali di Luca Marenzio, Jaches Wert e Claudio Monteverdi; e da quel momento il nostro discorso inizierebbe già a allargarsi verso le mille strade della pratica musicale barocca.

 

Lo vedi perché, interviene Platone, io non mi sporco volentieri le mani con questa cosa ambigua e inafferrabile che chiamano la realtà? Così come lo ha descritto il mio collega, il passaggio dalla semibreve alla minima possiede molte fra le caratteristiche di un evento improvviso e epocale; ha perfino una sua data, il 1542, e costituisce il terreno ideale per una ipotetica “teoria dei collassi”. Il quadro è pieno di eccezioni e di contraddizioni, ma in fin dei conti è anche più rigido di come te lo dipingerei io. Se lo ritieni utile, puoi decidere di mettere in evidenza uno di questi epocali cambi di passo in modo da conferire un po’ di drammaticità al tuo discorso: non devi tuttavia dimenticare che la tua scelta possiede sempre una forte componente di arbitrarietà. Potresti infatti sostenere, con uguale proprietà, che in definitiva perfino questo evento è passato del tutto inosservato agli occhi dei contemporanei. Prima di tutto non ha lasciato tracce nel repertorio più tradizionalista della musica sacra, che ha continuato per decenni a adottare la segnatura del semicerchio tagliato e a contare il tempo sulla semibreve; in secondo luogo si pone al culmine di un lento processo che stava maturando da anni e da ultimo non è stato minimamente recepito né dalla teoria né dalla didattica. L’espressione madrigali a note nere ebbe una vita molto breve e gli stessi stampatori che pubblicavano queste musiche non furono mai capaci di spiegare in modo convincente quale era l’esatto significato di quel semicerchio intero che ormai collocavano regolarmente in chiave. Sarebbe ingiusto fargliene una colpa: la teoria musicale aveva da sempre presentato la minima come l’ultima figura disponibile, quella che doveva marcare le suddivisioni più minute dell’unità di tempo, e l’idea stessa che d’ora in avanti la misura sarebbe andata a coincidere proprio con questa figura andava talmente contro tutti i precetti e i canoni della didattica tradizionale da essere letteralmente inesprimibile. In definitiva anche un cambiamento così evidente e dirompente come il passaggio alla minima può essere stato assorbito senza difficoltà nella concezione generale del tempo: sarà stato semplicemente recepito come una nuova moda passeggera, oppure come la nascita di un nuovo genere, oppure ancora come un facile modo di distinguere le composizioni destinate alle Accademie e alle Corti da quelle destinate alla Chiesa.

 

I due rivali si studiano per qualche minuto prima di riprendere a parlare, ma questa volta lo fanno assieme. La condizione in cui si trova chi studia la musica rinascimentale, dicono, è per fortuna molto diversa da quella in cui opera un paleontologo: sempre alle prese con specie animali diverse e sempre afflitto dall’impossibilità di trovare ogni volta l’anello mancante. Nel vostro campo è senz’altro possibile identificare una qualche composizione particolarmente emblematica che faccia da confine tra la scrittura alla semibreve e quella alla minima, ma in realtà sarebbe più giusto dire che il contrasto si trova disciolto dentro qualsiasi pezzo musicale che faccia parte del repertorio di quell’epoca. Consiste in una caratteristica essenziale di tutto lo stile, quella specie di tensione verso la conclusione che comporta una distribuzione larga e ariosa della sezione iniziale e una concitazione sempre maggiore man mano che la cadenza finale si avvicina. Il celebre Miserere di Josquin Desprez

http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xv-secolo/josquin-desprez/miserere-mei-deus

inizia con una scrittura ampia e con un movimento armonico particolarmente solenne, entrambi adatti a essere misurati sulla distanza della breve; man mano che i diversi episodi si susseguono, tuttavia, la distribuzione delle figure e i movimenti armonici si spostano sempre più in direzione della semibreve. Anche la sezione di esordio di Fama malum

http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xv-secolo/josquin-desprez/fama-malum

potrebbe essere interpretata sullo spazio della breve, ma la sostanziale equivalenza fra le semibrevi in posizione dispari e quelle in posizione pari dimostra che i calcoli del compositore iniziano fin da subito a spostarsi verso la figura inferiore: ne fanno fede i parziali movimenti cadenzali collocati in posizione pari in 52, 54, 80, 86, 110, 130 e 150. Le stesse tendenze espresse da questi due venerabili pezzi possono essere osservate in modo costante lungo tutto l’arco di quasi due secoli, fino agli spettacolari episodi conclusivi a soggetti multipli dei madrigali di Marenzio e di Monteverdi. Una minima porzione di frazionamento crescente, ovvero di slittamento, è sempre nascosta dentro a qualsiasi pezzo del repertorio rinascimentale: una buona trascrizione dovrebbe porsi il proposito di metterla chiaramente in evidenza.

 

A proposito di trascrizioni. Trasferire in partitura un brano di musica polifonica senza perdere il controllo delle parti non costituisce una fatica eccessiva, soprattutto se è il PC a fare i conti con le durate: gli eventuali errori di calcolo saltano subito all’occhio e le correzioni sono facili da applicare. Mentre tu stavi ascoltando gli argomenti dei due antichi maestri tuo figlio è stato capace di sorprenderti, si è scelto un mottetto di Palestrina ci si è messo d’impegno e poi ti ha girato con orgoglio la sua prima trascrizione. Non serve neppure chiedergli quanto tempo ci ha messo, in queste cose la velocità si acquista in fretta con la pratica. Ti sta invece tempestando di domande: come si mettono i testi? Perché mancano un sacco di diesis e di bequadri? Come cavarsela con i cambi di tempo? Perché a volte le figure si tingono di nero?

 

Ogni cosa a suo tempo, rispondi; quello che è necessario a questo punto è infatti provare a riflettere sul senso di quello che stiamo facendo. La scrittura musicale rinascimentale possiede prima di tutto l’importante caratteristica di non spaziare orizzontalmente le figure in base al loro valore: qualunque sia la durata di una nota, la nota successiva viene scritta a una distanza che non varia e che rimane comunque piuttosto ridotta. Questa caratteristica può sorprendere il lettore moderno abituato a una distribuzione proporzionale degli spazi, specialmente nel caso di figure che oltrepassano l’unità di tempo come una semplice semibreve puntata; ma in realtà costituisce una importante risorsa che agevola la lettura e il calcolo dei tempi senza costringere l’occhio a coprire gli spazi con tanti faticosi micro-movimenti. Quando un editore moderno decide di riunire in una partitura collettiva tutte le linee di una composizione polifonica rinascimentale sa già di dover rinunciare in partenza a questo fondamentale vantaggio, perché la distribuzione reciproca delle figure genera spaziature superflue che allontanano irrimediabilmente ogni singola voce dall’aspetto originale delle sue stesse fonti. L’arte di trascrivere procede sul filo di un delicato equilibrio: la verticalità dell’assieme è irrinunciabile per il lettore moderno ma una cattiva gestione degli spazi orizzontali può facilmente snaturare l’assetto ritmico di tutta una composizione.

 

Qualunque sia la misura che è stata scelta, la nostra trascrizione si presenterà divisa in battute; la loro presenza comporterà un certo numero di stanghette verticali che attraverseranno a intervalli regolari tutti i pentagrammi. Per prima cosa è preferibile che le stanghette siano individuali per ciascun rigo, per cui bisognerà imparare a fare in modo che il nostro programma di scrittura le possa interrompere tutte negli spazi verticali che separano una parte dall’altra; in secondo luogo diventa necessario riflettere sul ruolo che viene effettivamente sostenuto da queste piccole linee tracciate sul pentagramma. I nostri margini di scelta sono piuttosto ridotti: nel momento in cui stiamo realizzando una partitura le linee verticali sono davvero irrinunciabili perché la loro funzione è quella di aiutare l’occhio a riconoscere le note che cadono nella stessa fase ritmica pur trovandosi su righi graficamente lontani tra loro. Non possiamo illuderci di poter trasferire la polifonia in partiture prive di stanghette perché la spaziatura proporzionale che dobbiamo forzatamente imporre alle figure per ottenere gli incolonnamenti verticali toglie già alla scrittura rinascimentale tutta la sua scorrevole leggibilità; i tentativi di creare partiture senza battute non hanno mai saputo guadagnarsi l’apprezzamento dei musicisti perché in definitiva sono adatti a essere letti soltanto dall’occhio, efficientissimo ma tutt’altro che intelligente, di un computer. La scrittura rinascimentale non adopera le stanghette, questo è vero, ma soltanto e semplicemente perché fa in modo che ciascun cantore debba leggere solo ed esclusivamente la propria parte: in questo contesto le divisioni ricorsive collocate sul pentagramma diventano davvero superflue perché il conto del tempo primo 1 – 1 – 1 – 1, incentrato su una serie di fasi rigorosamente unitarie e identiche tra loro, non ne ricaverebbe alcuna utilità. In un brano musicale rinascimentale le stanghette potrebbero in teoria cadere, sempre e comunque, in qualsiasi posizione dispari: se si adotta la scrittura sulla semibreve possono cadere davanti a ciascuna semibreve che non sia in sincope, davanti a qualsiasi suo multiplo e anche davanti a ciascuna minima che sta aspettando la sua compagna per completare il conto della misura.

 

Per quanto riguarda la trascrizione di un brano costruito sulla semibreve abbiamo suggerito di adottare una misura da quattro tempi: dobbiamo precisarlo subito, il procedimento produce buoni risultati ma è semplicemente dettato dall’esperienza. Impedisce che il nostro primo risultato sia o così fitto da risultare opprimente oppure così ampio da non riuscire a disciplinare l’intreccio delle parti; adesso che la fase preliminare è esaurita, tuttavia, ci costringe a cimentarci con un nuovo gioco di pazienza. La presenza delle stanghette non può che produrre il risultato di far comparire nella nostra partitura parecchi esempi di un’altra risorsa grafica che la scrittura del Rinascimento preferisce non utilizzare: si tratta della legatura di valore, vale a dire di quel segno di uso piuttosto moderno che permette a una qualsiasi figura di spezzarsi in due tronconi per collocarsi a cavallo di una stanghetta verticale. La presenza della legatura di valore è un altro elemento che allontana la partitura dall’aspetto generale degli originali che stiamo trascrivendo; la differenza è che in questo caso l’inconveniente non è più irrimediabile e può essere in larga misura evitato. Per farlo non è necessario inventarsi grafie fantasiose come trattini ridotti o linee disassate, è sufficiente riuscire a spostare le stanghette in modo da eliminare sistematicamente tutte le legature di valore.

 

Dal punto di vista dell’immutabile tempo primo non è affatto rilevante che una qualsiasi stanghetta caschi a quattro tempi di distanza, oppure a tre o a due ma anche a cinque o a sette, dalla precedente; e neppure che caschi alla distanza di un solo tempo, se proprio l’andamento delle parti lo richiede. Due figure unite da una legatura di valore possono quindi essere ritrasformate in una figura intera semplicemente accorciando, oppure allungando, le due misure in cui sono venute a cadere. Il consiglio è quello di partire dall’inizio del brano e di procedere con ordine, fino alla fine, esaminando tutte le situazioni man mano che si presentano: bisogna cercare una disposizione ritmica in cui nessuna stanghetta interrompa mai una qualsiasi figura in una qualunque delle parti. Per acquisire dimestichezza con il nostro nuovo compito è senz’altro preferibile provare a risolvere una per una tutte le situazioni nell’ordine in cui sono state disposte dall’autore; se a lavoro concluso fosse necessario un ripensamento i programmi di scrittura concedono senz’altro di operare modifiche anche tra due battute qualsiasi, ma per farlo bisogna di solito prendere pratica con una serie di procedure un poco più articolate.

 

A conclusione del lavoro bisogna anche trovare il modo di cancellare tutte le indicazioni di tempo, compresa quella iniziale, senza più modificare la disposizione che è stata nel frattempo elaborata. Il pendio comincia a farsi un poco più ripido, ma anche in questa fase non è ancora il caso di imporre precetti tassativi; è bene che ciascuno si costruisca da sé un proprio percorso e una propria visione del problema. Possiamo tuttavia ricordare che già in questo secondo passaggio la risorsa più preziosa di cui possiamo disporre è una buona competenza musicale: la nostra abilità nel riconoscere le tecniche del contrappunto e nel saper valutare i movimenti armonici può già segnare la differenza tra un risultato mediocre e un lavoro ben fatto. Abbiamo ancora margini per crescere e per migliorarci.

 

 


 

Per contattare Luigi Lera: luigilera@libero.it

 


 

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