di Gianni Ruffin
(articolo pubblicato nel n. 2 della rivista musicologica Diastema, aprile 1992
rubrica “L’ipotesi critica”)
seconda parte
La parola “dramma” ha conosciuto nel tempo un mutamento di accezione: se originariamente, come testimonia la sua stessa etimologia, essa designava semplicemente quanto oggi noi intendiamo con il termine “azione”, per cui qualsiasi forma teatrale per le sue intime configurazioni strutturali rientrava nel campo della “drammatica”, al giorno d’oggi essa pare invece vertere per intero sulle coordinate semantiche dell’intensità e della tempralità diacronica: la ragione per la quale possiamo definire “drammatico” tanto, poniamo, lo scespiriano “To be or not to be” quanto l’elaborazione di un motivo in un movimento sinfonico di Brahms, è certamente legata al coinvolgimento di una dimensione temporale “interna”, non semplicemente esteriore. Il pensiero di Amleto si snoda nel tempo, in qualità di approfondimento concettuale, di determinazione e sviluppo temporale del concetto con cui esordisce il celebre monologo. L’elaborazione brahmsiana, parimenti, ci si presenta come “azione” in quanto il processo della metamorfosi (motivica) sembra tracciare uri “divenire”, delineando una diacronizzazione del tempo che scorre interno alla composizione. Tuttavia difficilmente oggi queste due così diverse manifestazioni in forma artistica di una temporalità diacronica sarebbero percepibili come “dramma” se questa stessa temporalità diacronica non fosse strettamente legata ad una forte presenza del fattore patetico: sarebbe assai più difficile sostenere la drammaticità (nell’accezione moderna) di un monologo metastasiano o di un’elaborazione motivica bachiana le quali vadano esenti dalla presentazione di un materiale concettualmente assimilabile al campo espressivo del pathos.
Secondo Charles Rosen
Il compositore classico non sempre aveva bisogno di temi caratterizzati da una energia armonica o melodica particolare per drammatizzare la propria opera: il dramma è implicito nella struttura.1
Quest’idea è legata all’accezione etimologica della parola “dramma”, comune per l’estetica del classicismo, secondo la quale il principio del contrasto che regge la struttura della forma-sonata sarebbe di per sé “drammatico”. Successivamente all’epoca classica si è però progressivamente imposto un nuovo senso della parola “dramma”: l’idea cioè che il rilievo “drammatico” della musica possa essere definito da un’esasperazione dell’intensità dell’attimo, dell’istante, anziché da una distribuzione calibrata nel tempo ed architettonicamente ordinata di elementi dialettici. È questa la fondamentale ragione, da un punto di vista di ordine espressivo, che conduce all’abbandono dei moduli sonatistici da parte dei compositori primo-romantici a favore del pezzo breve ed aforistico: la contrazione della durata del brano e la tensione verso il disfacimento della sua architettura interna sono tutte qualifiche che svelano questa nuova mentalità epifanica, votata ad un modernissimo anelito faustiano ali–attimo che fugge”, ormai ben distante dall’idea che un’ampia architettura formale, ben calibrata ed ordinata possa essere di aiuto all’espressione di alcunché2. Riassumendo i termini dell’opposizione parleremo dunque da un lato di una “Drammaticità estensiva” legata all’accezione più antica della parola “dramma”, imperniata sui rapporti di ordine macro-strutturale e su archi temporali ampi, e d’altro Iato di “Drammaticità intensiva”, imperniata sull’esasperazione “patetica” dell’attimo.
Ebbene, mi sembra che con la Sinfonia K 550 venga anticipato proprio questo aspetto della mentalità moderna: l’aspetto strutturale del primo e del secondo tempo sembra votato proprio alla ricerca di una drammaticità “intensiva” più che a quella di un “dramma” di tipo “estensivo-architettonico”. In tal senso la singolarità dello stile mozartiano in rapporto alla ricchezza del materiale tematico merita una digressione.
È arcinoto che la pluralità tematica rappresenta una delle caratteristiche salienti dello stile mozartiano, in ciò assai diverso dal modello monotematico considerato tipico di Haydn: dalla ricchezza motivico-tematica di una. Jupiter o di una Praga quest’ultimo avrebbe potuto trarre non una ma dieci sinfonie3. Per questa sua profusione di idee tematiche Mozart ha subìto critiche anche in tempi recenti: la varietà dei temi avrebbe precluso il singolo approfondimento delle possibilità di ciascuno, attuabile solo attraverso una serrata elaborazione.
Ciò che la critica di esclusiva impronta formalista non ha potuto capire di fronte a questa caratteristica dello stile mozartiano è la ragione di ordine retorico-espressivo che ne sta alla base: in Mozart l’attività dell’operista è strettamente connessa a quella del compositore di musica strumentale, in un continuo scambio di tecniche e soluzioni che rendono ciascuno dei due generi fonte e risultante del contributo apportato dall’altro; erigere steccati fra i generi anziché indagarne le relazioni è atteggiamento, nei confronti di Mozart, miope e limitante:
opere e sinfonie erano il prodotto della stessa mente, condividono pertanto stili e idee e, in certa misura, si trovano ad esprimere tematiche comuni.4
Mozart componeva Opere anche scrivendo Sinfonie, e viceversa: metaforicamente parlando i temi musicali sono, potremmo dire, personaggi da alternare sul palcoscenico immaginario di un concerto sinfonico. Fuor di metafora: la tecnica elocutiva che porta avanti l’azione nei lunghissimi concertati delle sue opere è esattamente (a livello di risultante sostanziale, non assolutamente di campitura formale complessiva, beninteso5) la stessa che serve per condurre un tempo sinfonico in forma sonata: nelle opere di Mozart (e, all’interno di queste, specialmente nei concertati d’azione) esposizioni, variazioni, elaborazioni, modulazioni, riprese tematiche, tutte le simmetrie e le asimmetrie che costituiscono le formule elocutive della forma-sonata scandiscono con assoluta puntualità le vicende in scena. La musica sinfonica “pura”, per converso, è leggibile dunque come stilizzazione cifrata di un divenire: come scrisse Thrasybulos Georgiades riferendosi alle asimmetrie fraseologiche di un’aria d’opera de La finta giardiniera,
In Mozart ritroviamo, invero trasformata, l’eredità della grande musica polifonica, ritroviamo la saldezza dell’edificio sonoro, che non si regge su mezzi alla buona come ad esempio le anguste simmetrie dello stile galante. […] Questa è musica che si lascia intendere solo ed unicamente se la si intende come “scrittura musicale attiva”, emanazione di un uomo che agisce al nostro cospetto. […] Ma attenti: questa musica “attiva” non compare soltanto là dove si assiste ad un’azione materiale, concreta. […] Quel che incontriamo qui è semmai un nuovo, specifico atteggiamento, che intende la realtà comunque sotto la fattispecie dell’azione. Mozart non isola un’immagine statica (come fa ancora Gluck), bensì enuclea l’immagine stessa dell’agire, ch’è a tutta prima solo latente. Lo stesso dicasi della nuova musica strumentale, la musica “classica”. Il linguaggio musicale classico spezza l’immagine statica dell’affetto singolo, o d’una catena d’affetti, e la trasforma in azione flagrante.6
ci interessano da vicino le considerazioni addotte da Leo Treitler a proposito di questa impostazione critica, che postula l’equivalenza, a livello di tecnica elocutiva, fra dué generi musicali (opera e sinfonia) in apparenza tanto diversi. Tale equivalenza, motivata da Treitler nella prospettiva della narratività musicale e dell’estetica musicale classica, è pensata in modo tale da giustificare un ribaltamento delle pertinenze, non più solo per identificare le tracce della sinfonia nell’opera, bensì anche per un percorso di lettura diametralmente inverso:
Non è […] che, nel comporre un’opera, Mozart dava contenuto concreto a un tipo di narrazione musicale per il quale aveva comunque inclinazione? Poteva farlo perché la narratività della sua musica si modellava tanto ampiamente sull’esperienza della vita mentale. È quella la caratteristica della sua musica che gli permise di divenire il supremo compositore d’opera quanto a precisione psicologica. Corrisponde all’idea di musica assoluta il fatto che la sua musica sinfonica crei un’impressione dell’esperienza dell’azione e che modelli pensiero e sentimento. […] C’è tuttavia un altro modo di porte il rapporto tra sinfonia e opera nella produzione mozartiana, affermando cioè che le sue opere sono sinfonie con cantanti; questo è il rovescio della stessa medaglia.7
dispiegato sullo sfondo di tale retroterra ermeneutico ed entro il piano di articolazione formale definito da Georgiades, il politematismo mozartiano acquisisce luce affatto nuova: i temi di Mozart si alternano sulle sue partiture strumentali come caratteri interagenti sulla scena: nobili, solenni, addolorati, petulanti, scherzosi, tristi, ironici, singhiozzanti, goffi, nervosi, essi ci appaiono, per così dire, metafore sonore di varia umanità8. È questa a mio parere la ragione determinante per comprendere il politematismo mozartiano: tradurre in musica l’animazione di caratteri che contraddistingue la commedia ad intrigo9.
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Ricuciamo le fila con la Sinfonia K 550. La configurazione tematica dei tre movimenti in forma-sonata ha qualcosa di unico. Si potrebbe tentare di definirli movimenti, mi si perdoni l’orribile neologismo, “pseudomonotematici”: il ruolo architettonico dei “secondi temi” è talmente limitato e circoscritto da evidenziare vieppiù, per contrasto, l’onnipresente diffusione dei temi principali. Non vi è dunque un vero e proprio monotematismo alla Haydn10, la presenza di nuclei tematici “dialettici” indica che Mozart non persegue intenti emulativi nei confronti della straordinaria capacità del grande collega ed amico di reggere un intero movimento su temi o addirittura su singole cellule motiviche — la cui semplicità (un esempio per tutti: il finale della Sinfonia n. 88) giunge a rasentare i limiti della banalità”.
Il valore esteticamente autosufficiente del tematismo in Mozart, ed in particolare nella nostra Sinfonia K 550, è “assoluto”12, tanto nell’ambito sinfonico quanto in quello operistico: Mozart non sembra tanto voler perseguire la “funzionalità” dei temi alla costruzione di una forma, bensì una pregnanza espressiva assoluta (ab-soluta). Per analogia si potrebbe ipotizzare che negli sviluppi mozartiani non sia tanto perseguito l’esaurimento delle possibilità metamorfico-formali per così dire “insite” in un determinato tema, bensì l’approfondimento delle virtualità retorico-espressive del tema stesso. Un ottimo esempio in tal senso viene proprio dalla Sinfonia K 550.
Lo “pseudomonotematismo” della K 550, particolarmente del primo e del secondo movimento, ha come controparte una conformazione elocutiva per così dire “parziale” e “sbilanciata”: come accennato in precedenza esistono idee tematiche contrapposte, ma i due movimenti prendono vita da un processo per il quale una sola cellula (l’anapesto che configura il primo tema nel movimento d’apertura, il piccolo inciso ritmico di due biscrome e pausa di semicroma con cui viene delineata l’innocentissima “codetta” del primo tema nel secondo movimento13 (vedi es. 4) invade inesorabilmente a mo’ di ossessiva “idée fìxe” tutto lo spazio del movimento fino ad ergersi protagonista di sezioni dalla straordinaria pregnanza drammatica (in senso “intensivo”). Nel primo tempo la stessa forma del primo tema, a paragone con le caratteristiche più comuni del tematismo mozartiano, sembra risentire di questa enfasi portata su un singolo elemento sostanziale che in seguito contraddistinguerà il movimento sinfonico: il primo tema è infatti articolato quasi per intero tramite la sola cellula motivica configurata dall’anapesto e dal suo incrocio con il modulo diastematico costante “discesa per grado congiunto/nota ribattuta” (vedi es. 214).
Es. 4
Nel secondo tempo il processo di “invasione” dell’edificio sonoro da parte di un singolo nude° motivico risulta ancora più radicalizzato, in virtù del fatto che la micro-cellula la quale si fa carico di sopportare il peso dell’intero movimento non è in origine che una semplicissima figurazione rococò, buona tutt’al più a fare da codetta (bb. 21-22). Durante le sezioni dinamiche, sviluppo o sviluppi secondari, questa cellula invade Io spazio sonoro fino a troncare ogni procedimento elaborativo e sostituirsi in qualità di immagine ossessiva al divenire della struttura. L’episodio centrale del secondo tempo che vede la cellula lanciata su una lunghissima salita cromatica (bb.53 sgg.) appare del tutto analogo a quello già descritto del primo movimento. In entrambi i casi si tratta di materia grezza, di puro materiale costruttivo che si svincola totalmente da qualsiasi legame con il principio di aggregazione formale simmetrica, per vagare in spazi non più “protetti” dalla forma, ma aperti a dimensioni ignote, all’ in-finita
Nello sviluppo del primo tempo lo sbilanciamento della forma operato attraverso l’ossessionante ritorno periodico di un solo elementi sostanziale (l’anapesto) è la ragione della concomitante “successione di tonalità addirittura caleidoscopica”15: la “monotonia” tematica trova il suo pendant nella varietà armonica causa prima del potentissimo effetto drammatico ottenuto dall’episodio: per concludere con parole nostre diremo che lo “pseudomonotematismo” che caratterizza la K550 sta alla sua drammaticità intensiva come il politematismo che caratterizza assai più di frequente le forme-sonata del salisburghese sta al dramma estensivo-architettonico che in esse Mozart consegue traducendovi l’archetipo ideale della commedia ad intrigo: la modernità della K 550 si misura sul terreno dell’idea di “dramma”.
Il grado di tensione che Mozart riesce a conseguire nell’Allegro molto con questo procedimento compositivo che oppone la fissità ossessiva dei periodici ritorni dell’anapesto all’instabile e fluttuante percorso tonale è davvero molto intenso, tanto da motivare in prossimità del termine dell’esposizione alcune asimmetrie della forma e nel rapporto forma/sostanza a mio modo di vedere rivelatrici. Lo scompiglio armonico e lo choc dell’ultimo episodio elaborativo sono tali da influire sugli stessi cardini articolatori della struttura. La ripresa (per così dire indecisa) viene sdoppiata in due fasi successive: la ripresa tematica anticipa di qualche istante quella armonica, sfruttando la possibilità di sottoporre ai suoni incipitari del tema cantabile (MIb-RE) l’armonia di dominante (RE maggiore) anziché quella di tonica (SOL minore). Anche senza voler scomodare il nome di Brahms (dato che questa particolare soluzione compositiva della ripresa gli sarà assai cara — vedi ad esempio il primo tempo della Quarta), è certo che il procedimento qui riscontrato manifesta una dissociazione tra forma e sostanza che sembra densa di implicazioni per il futuro: nell’Ottocento la forma-sonata di eredità classica sopravviverà più che altro come genere-reliquia reso problematico dalla stessa natura sostanziale dell’ideazione tematica e motivica romantica. Leggiamo a proposito alcune illuminanti affermazioni di Rosen cercando di interpretarle in funzione del binomio oppositivo forma/sostanza:
Quando la forma-sonata non esisteva ancora, aveva già una storia, la storia dello stile musicale settecentesco. Una volta che la sua esistenza venie ratificata dalle teorie ottocentesche, non era più possibile che la forma-sonata avesse una storia: essa era ormai definita, fissata e inalterabile. A parte alcuni dettagli di scarsa importanza, la forma-sonata sarebbe rimasta per l’eternità quella che Czerny aveva definito. […l Gli stereotipi sonatistici dell’Ottocento e del Novecento non sono rappresentativi di un linguaggio musicale in sviluppo, ma piuttosto della pigrizia o della disperazione del compositore.
[…] La generazione romantica si rivolse indietro, alla sensibilità per i rapporti tonali del primo Settecento o del Barocco. Per Bach una tonalità era più strettamente legata al suo relativo minore che non alla tonica minore. Per lui il RE maggiore ed il SI minore erano più o meno la stessa tonalità, mentre il SI minore ed il SI maggiore erano diversi […]. Non era così nel tardo Settecento; per Haydn era ben più importante avere la stessa nota come tonica che non avere le stesse note della scala diatonica.
Lo stile sonatistico insisteva nel porre il massimo dell’importanza sulla tonica. I romantici videro gli immensi vantaggi di un sistema più sfocato. Era divenuto possibile integrare la musica in un’area tonale generale, piuttosto che in una tonalità specifica e ben definita. La Kreisleriana,le Davidsbiindertartzee la Dichterliebe di Schumann, come la Seconda ballata di Chopin (in FA maggiore/LA minore), creano un’unità tonale, anche se non viene definita una tonalità centrale. Il mutamento dei rapporti fra tonalità minore e relativo maggiore dimostra ancor meglio questo fatto: per Chopin, nella Fantasia in FA minore/LAb maggiore e nello Scherzo in SIb minore/REb maggiore, esse sono più o meno la stessa tonalità, come d’altra parte per Schurnann in “Aveu”, dal Carnaval, e in altre composizioni.
Dal momento che molte, e forse la maggioranza, delle sonate romantiche sono in minore, esse sono obbligate dalle regole classiche ad andare al relativo maggiore. In termini di sensibilità romantica non vanno in nessun posto, non avviene nessuna modulazione, e di conseguenza nessuna polarizzazione.16
La problematica della forma nasce nell’Ottocento proprio a causa della più specifica e talora esclusiva attenzione al piano sostanziale: il “sistema più sfocato” del quale parla Rosen rientra a pieno titolo nell’insieme delle qualifiche che concorrono a delineare la sostanza, il materiale tematico. Di qui i problemi per la sopravvivenza della forma (sonata) durante l’Ottocento. Se ricordiamo che l’estetica romantica dell’espressione riconosce nella forma architettonica un vero e proprio ostacolo alla costruzione sonora, ecco allora che il dissidio forma/sostanza tale quale ci appare in Mozart non può che apparirci come momento straordinariamente anticipatore di una sensibilità non ancora affermatasi. La via mozartiana a questo dissidio resta però un esempio impraticabile ai romantici proprio in quanto presuppone, sia pure per negarla, l’esistenza della macro-forma: è evidente che espressioni come poli- o mono-tematismo e termini come “pseudomonotematismo” sono inapplicabili ai pezzi aforistici di Schumann o Chopin.
Una seconda particolarità strutturale della K 550 la cui esegesi può essere collegata alla questione dei rapporti fra forma e sostanza compositiva si trova, ancora nel primo tempo, all’altezza dell’episodio di raccordo fra i due temi della forma-sonata durante la ripresa (bb. 191-225): ben lungi da tale semplice funzione di raccordo fra le due aree tematiche, esso viene ampliato, secondo una funzione abbastanza frequente in Mozart17, al rango di un vero e proprio “sviluppo secondario”18 dalla straordinaria pregnanza drammatica (ancora una volta in senso intensivo) che segue un percorso armonico piuttosto accidentato, raggiungendo il SOL minore da MI bemolle maggiore attraverso un’inflessione a FA minore19.
È noto che il ponte modulante di qualsiasi forma-sonata perde nella ripresa il suo ruolo essenziale perché non modula più, assumendo invece funzioni di equilibrio e simmetria formale. Nel caso della K 550 la simmetria risulta però sbilanciata dalle dimensioni del ponte, la cui ragion d’essere, come spiega Hermann Abert, è dovuta a matrici di marca sostanziale:
è soprattutto il ponte ad essere ampliato in maniera notevolissima. Al termine di esso ritroviamo il secondo tema, ora in SOL minore, nella forma cioè che […] possiamo considerare come quella intuita originariamente da Mozart. Ma anche questa importante trasformazione andava adeguatamente preparata e giustificata. Qui sta l’intimo significato del nuovo “ponte”.20
Credo che lo scollamento tra forma e sostanza, tale che la sostanza piega la forma verso configurazioni particolarmente originali vada strettamente correlato alla qualità espressiva saturnina della K 550. Gli sviluppi dei primi due tempi mi sembrano per così dire “concettuali”: nel caso del primo tempo la “riflessione” sonora verte sull’approfondimento espressivo di premesse già percepibili alla prima enunciazione del tema cantabile, nelle cui pieghe si manifestava fin dall’inizio un’ambivalenza espressiva, uno stato di lieve inquietudine. L’architettura generale dello sviluppo sembra voler ubbidire ad un processo di intensificazione drammatica nella proposta successiva dei tre procedimenti elaborativi possibili all’epoca di Mozart: dapprima la progressione, quindi il contrappunto (doppio), infine la più recente tecnica consistente nello smembramento cellulare del tema e nell’elaborazione dei singoli motivi isolati che lo compongono, o durchbrochene Arbeit. Nel caso del secondo movimento si potrebbe sostenere che il deliberato processo di straniamento angosciante conseguito inserendo quell’innocentissima cellula galante in un contesto “espressionista” ante litteram quale l’infinita ascesa cromatica assume quasi l’aspetto di un teorema psicanalitico sulla perversione dell’innocenza… Comunque sia, anche senza voler scomodare il “perturbante” freudiano, è certo che i connotati di una simile contaminazione fra innocente galanteria rococò e sperimentalismo cromatico sono una prova impressionante dell’abisso creatosi fra la coscienza mozartiana ed i valori della contemporaneità.
Se l’unione di sostanza e forma è solo il momento sonoro di quel più vasto insieme di corrispondenze “verticali” che unisce a tali componenti micro- e macro-articolatorie la qualifica e la funzione sociale dei generi, allora nulla più dello straniamento angosciante conseguito dal Minuetto della Sinfonia K 550 testimonia dell’avvenuta separazione tra musica del presente e “musica funzionale” del passato: della danza galante (un addobbo sonoro dell’Ancien Régime cui Beethoven darà molto presto il benservito) resta solo la forma. La sostanza converte l’immagine di una società aggraziata e cerimoniosa nella sua parodia spettrale (ed è una proiezione che di li a poco troverà il suo terribile riscontro “reale” negli sciagurati protagonisti in carne ed ossa — da macello — della Storia): le ambivalenze ritmiche generate dalle emiole binarie dell’ incipit (es. 5a, il ritmo delle parti acute è binario, tanto che quella dei violini potrebbe essere riscritta come all’esempio 5b o secondo varianti similari), le asimmetrie dovute all’uso dell’imitazione che genera continui sfasamenti nella percezione dell’unità fraseologica (es. 5c), unite all’uso del modo minore per la tonalità d’impianto, trasformano il pomposo e solenne andamento del Minuetto settecentesco nella sua caricatura sarcastica e grottesca. Stabilire con l’atto critico connessioni dirette fra materiale sonoro e vicende politiche è spesso forzato e fuorviante, e tanto più nel caso di Mozart, tuttavia in questo caso, una tantum, la lettura mi sembra, più ancora che pertinente, obbligatoria.
Quell’insieme di reciproche corrispondenze che lega in un crescendo di astrazione sostanza, forma, genere e funzione sociale viene scosso dalle radici. Ciò che resta sono i sinistri relitti di un equilibrio ormai non più conseguibile.
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NOTE
- CHARLES ROSEN, Lo stile classico, p.86. Il corsivo è mio.
- È la ragione per cui la parola forma ed il suo derivato “degradato” formalismo sembrano quasi coincidere in certe formulazioni estetiche di epoca romantica. D’altronde, mutatis mutandis, la dissoluzione delle forme del teatro d’opera perseguita da Wagner non trova forse una sua primaria ragione nel tentativo di far corrispondere nel modo più analitico possibile il grado di intensità degli eventi rappresentati in scena (reali o psicologici) con la loro istantanea formalizzazione sonora?
- A proposito della Sinfonia “Praga” Rosen dichiara addirittura che “la molteplicità dei motivi dell’esposizione è strabiliante”. CHARLES ROSEN, Le forme-sonata, Feltrinelli, Milano 1986, pp. 196-218. Orig.: Sonata forms, W.W. Norton & Company, New York 1980.
- NEAL ZASKW, Significati per le sinfonie di Mozart, in AAVV, Mozart, a cura di Sergio Durante, Il Mulino, Bologna 1991, pp. 61-104; la citazione proviene da p. 82. Orig.: Meanings for Mozart’s Symphonies. Context, Performance Practice, Clarendon Press, Oxford 1989, pp. 510-44.
- Vedi al proposito quanto in: CHARLES ROSEN, Lo stile classico, pp. 333-75.
- THRASYBULOS GEORGIADES, Del linguaggio musicale nel teatro mozartiano, in Mozart, , pp. 291-316; la citazione proviene dalle pp. 296-7. Ed. orig.: Aus der Musiksprache des Mozart-Theaters, Mozart-Jahrbuch”, 1950, pp. 76-98.
- LEO TREITLER, Mozart e l’idea di musica assoluta, in AA VV, Mozart, cit., 191-231; la citazione proviene da pp. 228-9. Ed. orig.: Mozart and the Idea of Absolute Music, in Das Musikalische Kunstwerk. Geschichte-Asthetic-Theorie. Festschnft Cari Dahlhaus zum 60. Geburstag, a cura di H. Danuser, H. de la Motte-Haber, S. Leopold, N. Miller, Laaber-Verlag, Laaber 1988, pp. 413-40.
- È del tutto conseguente che il genere strumentale in cui Mozart per universale riconoscimento ha raggiunto i suoi esiti più alti sia stato quello del Concetto: lo stile dialogico — concertante, appunto — e la forma più “rilassata” che concede ampio spazio agli interventi virtuosistici del solista ed alla cantabilità del materiale tematico, rappresentano il luogo deputato a far eccellere le doti inventive e “drammaturgiche” di Mozart.
- Sia ben chiaro: con ciò non si vuol certo dire che Mozart non sapesse elaborare i temi, o che la sua sia stata musica “superficiale”: evidentemente ai suoi occhi la tecnica dello sviluppo rappresentava una delle opzioni possibili, da usarsi solo nei momenti giudicati i più opportuni. In questo suo atteggiamento si può avvertire in controluce rota segno di classico equilibrio che lo situa al di qua della polemica contrapposizione (del tutto ottocentesca, in fin dei conti) tra “elaboratori’ e “melodisti”: la sua musica è aliena ad ogni feticismo nell’uno o nell’altro senso. In Mozart entrambe le caratteristiche (elaborazione e inventiva melodica) convivono al massimo dei livelli qualitativi pensabili. Si tratta di un artista la cui vena melodica possiede il dono del fascino assoluto (e gli esempi come tutti sappiamo sarebbero innumerevoli), tanto quanto frutto di maestria compositiva assoluta sono gli sviluppi che egli sa far germinare da temi di tutti i tipi. Quarzo alla “superficialità”, pensare che sia imputabile al compositore dell’Ave verum, del Don Giovanni e di innumerevoli altri capolavori è, ovviamente, pura bestemmia. Mozart è uno di quei pochi ardisti capaci di raggiungere l’abisso con un cenno: la profondità del suo genio può permettersi la concisione dell’aforisma.
- In Haydn potremmo addirittura parlare non già di monotematismo, bensì addirittura di stile “monomotivico”: non sono rari nei suoi quartetti o nelle sue sinfonie i movimenti condotti esclusivamente attraverso le metamorfosi di un’unica cellula motivica. Nei rari casi in cui è riscontrabile, il monotematismo mozartiano (nell’accezione corrente, non in quella di “pseudomonotematismo” che sto discutendo a proposito della K 550) è comunque “plurimotivico”. Si veda il movimento considerato da Hermann Abert fortemente improntato al aindello haydniano all’interno del corpus sinfonico mozartiano: il pino tempo della Sinfonia “Haffner”. Vedi: FIERNIANN ABERT, Mozart, cit., vol. 1, pp. 815-6.
- Questa, a mio avviso, la più straordinaria delle “sorprese” haydniane.
- In questo fatto va riconosciuta la ragione primaria che ha consentito lo sfruttamento “gastronomico” di Mozart: la bellezza autonoma, autosufficiente ed assoluta (“ab-soluta”, nel senso etimologico del termine) del suo tematismo si può prestare facilmente alla decontestualizzazione, già più problematica con i temi di Haydn.
- A perseguire questo genere di sorprese Mozart pare spesso ben incline. Vedi il primo tempo della “Jupiter” dove la codetta che chiude l’esposizione (bb. 107-11) si trova protagonista, all’inizio dello sviluppo, dell’episodio contrappuntisticamente più elaborato del movimento (bb. 139 sgg.). Una soluzione analoga tornerà fra l’altro nel Rondò del Concerto per Clarinetto K 622: vedi (bb. 122 sgg.) l’ampliamento ottenuto con l’elaborazione della codetta presentata alle bb. 51-6.
- L’esempio è riportato nella prima parte di questo articolo, pubblicata all’interno del n. 1 di “Diastema”, pp. 47-52.
- CHARLES ROSEN, Lo stile classico, cit., p. 78.
- CHARLES ROSEN, Le Forme-Sonata, cit., pp. 292-5.
- “Nelle sue opere non è infrequente la presenza di una breve sezione di sviluppo dopo la ricomparsa del primo tema, che non costituisce affatto una semplice sostituzione della modulazione alla dominante dell’esposizione”. CHARLES ROSEN, Lo stile classico, cit., p. 86.
- Vedi CHARLES ROSEN, Le Forme-Sonata, cit., p. 250 e sgg.
- L’attimo di indugio con il quale Bruno Walter trattiene la Columbia Symphony Orchestra nella sua incisione della sinfonia (Compact Disc CBS MK 42028, precisamente ai minuti 4.32) all’interno dell’episodio fra la sezione modulante iniziata in FA minore e l’arrivo alla tonica del brano, SOL minore, è una “licenza” in grado di significare assai più che qualsiasi tentativo di recupero filologico: fa letteralmente mancare il respiro all’ascoltatore e definisce in modo difficilmente equivocabile (giacché opera con una sollecitazione diretta a livello epidermico) il carattere drammatico della K 550. Non si creda che lo scrivente sia annoverato nella nutrita schiera degli oppositori alle esecuzioni cosiddette “filologiche”. Sarebbe difficile e tantomeno auspicabile opporsi con qualche ragione alla argomentazioni di Leo Treitler (Mozart e l’idea di musica assoluta, , p. 231) sul metronomo nell’Andante con moto” della Sinfonia K 543, che esalta la scelta di un tempo veloce (come avviene nell’esecuzione del “filologo” Christopher Hogwood) contrapponendola alla “‘espressività’ uniformemente benevola, una realizzazione dell’immagine apollinea di Mozart” riscontrabile nell’esecuzione a metronomo lento di Bruno Walter. Il fatto è che, a mio giudizio, l’equazione che pone una stretta correlazione fra le scelte metronomiche e l’espressività musicale (per cui metronomo lento = apollineo mentre metronomo veloce dionisiaco), un’equazione assolutamente adeguata all’Andante con moto K 543, non risulta altrettanto pertinente per altri brani. Il rischio che corre al giorno d’oggi un direttore che nell’esecuzione della K 550 opti per un metronomo veloce è di privarla di quel minimo di serietà tale da preservarne le valenze espressive dall’analogia con le sue ripetute banalizzazioni gastronomiche: un metronomo veloce, ben lungi dal drammatizzare il primo tempo della K 550 (ossia ricomporne il senso originario) rischia in ogni momento di farla sembrare una canzonetta. In tal senso la ricetta esecutiva di un altro celebre direttore “filologo”, Nikolaus Harnoncourt, consistente nell’enfasi data a tutte le soluzioni esecutive più “spigolose” (sforzati e, più generalmente, il gioco delle dinamiche) e “materiche” (presenza consistente di “cavate” e di effetti quasi rumoristici nell’estrema povertà di armonici cui è condotta l’emissione sonora), preservano la musica antica dalla banalizzazione gastronomica cui ineluttabilmente andrebbe altrimenti incontro, dati gli ineludibili condizionamenti cui in ogni epoca (anche la nostra) è soggetto l’orecchio musicale. Ripristinare timbri e ritmi dei tempi di Mozart è certamente un’operazione auspicabile, ma rappresenta solo metà del lavoro da compiere: le coordinate di ascolto di un pubblico post-wagneriano (anche post-beethoveniano?) sono state, sono e saranno sempre ineluttabilmente diverse da quelle del pubblico contemporaneo a Mozart. La nostra fruizione della musica mozartiana risente anch’essa dell’ambivalenza sostanza/forma, tanto che per ricostruirne le valenze espressive abbiamo talora bisogno di “darle una mano”, di rafforzare alcune sue caratteristiche a scapito di certe altre. La nostra percezione di molta musica antica è dissociata dalle radici: per la comprensione di Mozart, per quanto paradossale possa sembrare, abbiamo bisogno di un Christopher Hogwood per la forma e di un Bruno Walter per il contenuto.
- HERMANN ABERT, Mozart, cit., tomo II, p. 503.