di Luigi Lera
Prologo
Tuo figlio ha un bel problema da risolvere. Sta tentando per la terza volta di passare l’esame di Notazione Musicale Rinascimentale ma non c’è verso, non riesce a prendere confidenza con i tactus le mensure le proporzioni le ligature e tutti i misteriosi meccanismi della scrittura mensurale bianca. Benedetto figliolo, provi a dirgli, si tratta di una questione di Storia: perché non provi a fare come si fa di solito, ti prendi l’argomento fin dal principio e lo segui finché non arrivi al Rinascimento? Fai pratica con le scritture neumatiche, poi passi alle origini della polifonia e al Duecento, poi ti fai una bella esperienza con il Trecento e infine affronti tutte le questioni che sono emerse nel Quattrocento. Vedrai che alla fine il Cinquecento non avrà più segreti per te. No, risponde lui, niente da fare: l’esame è l’esame di Notazione Rinascimentale e il prof non chiede altro, mica devo essere io quello che parte da Damo e Deva. Perché fare tutta quella fatica se il mio piano di studi non la prevede nemmeno? Provi a assecondarlo: va bene, allora facciamo valere la tua esperienza. Conosci la musica del Rinascimento? hai un tuo bagaglio personale di repertorio, di ascolti, di cognizioni storiche e di pratica esecutiva? Che assurdità, ride lui, il repertorio viene dopo: mi hanno detto che prima devo capire la notazione e poi, magari il prossimo anno, potrò usare le mie conoscenze per avvicinarmi alla musica. Ma povero ragazzo, in questo modo farai soltanto il doppio della fatica: prima ti sembrerà che la notazione sia un insensato guazzabuglio di regole senza scopo, e poi quando ti troverai a affrontare la musica avrai già perso ogni interesse nei suoi confronti. A me invece hanno detto, replica lui, che il vero errore sarebbe quello di avvicinarsi alla musica prima di conoscere le sue regole: così va a finire che si tira avanti per anni senza neppure sapere dove si sta andando a parare. Mi stai forse proponendo di affrontare la materia come si faceva quarant’anni fa?
Lui si è alzato ed è uscito, tu rimani da solo a pensare; no, non era quello che gli stavi proponendo. In quarant’anni ne abbiamo fatta di strada e sarebbe ingiusto non tenerne conto: in un mondo in cui tutto, i diamanti e la spazzatura, si trova sempre alla portata di un click anche non possedere fin dall’inizio un criterio per orientarsi è senz’altro un grosso rischio. E allora, ti chiedi, come puoi aiutarlo a costruirsi una competenza? Gli argomenti sono tanti: prima di tutto le figure musicali, quelle più normali ma anche quelle particolari; poi i segni che ne completano il senso. Subito dopo, ma anche parallelamente, le indicazioni di tempo; senza trascurare il significato delle fonti teoriche, quelle che cercano di fare luce su tutte queste questioni, né le esigenze di una buona trascrizione. Poi ci sono le alterazioni sottintese i meccanismi cadenzali e il sistema dei modi, poi le proporzioni e le colorature, poi naturalmente anche la collocazione dei testi… e in mezzo a tutto questo c’è il repertorio, la sua storia, i suoi capolavori e i suoi ideali artistici. Come si può tracciare un percorso, come si possono stabilire le precedenze?
In un certo senso il tuo ragazzo si sta fermando sulla soglia del problema: resta lì a chiedersi che cosa deve venire prima e che cosa deve venire dopo. Viene prima la pratica, no, viene prima la grammatica… belle frasi di principio, ma nessuna delle due rispecchia davvero il modo in cui dovrebbero andare le cose. Perché dobbiamo essere ancora fermi al cosa viene prima e al cosa viene dopo, siamo forse rimasti ai tempi di Platone e di Aristotele? Intanto ti alzi, hai deciso che ti serve una pausa, ti butti un attimo sul divano. Solo per riordinare le idee, dici a te stesso; ma poi fai l’errore di chiudere gli occhi e di lasciare andare in libertà i tuoi pensieri. Non ci metti molto a prendere sonno.
Eccoli lì i due grandi maestri. Sono assai diversi per indole e temperamento, hanno una visione delle cose diametralmente opposta, litigano su tutto, ma oggi si sentono in vena di scambiare due parole e di chiacchierare amabilmente. Sono seduti allo stesso tavolo, davanti a un capretto arrosto e a un cratere di buon vino, e si godono la vista dell’Acropoli stando alla piacevole ombra di un pergolato. L’arte di cucinare, sta dicendo il primo, è sostanzialmente sempre la stessa: si tratta in fondo di modificare la composizione chimica degli elementi, per renderli più digeribili, e di unirli ad altri elementi per renderli più appetitosi. Come puoi dire una cosa così sciocca, lo rimprovera il secondo, non sai che l’arte della cucina è dappertutto sempre diversa? Che quello che a Micene chiamano “pasticcio di olive” può non essere riconosciuto per tale da un cuoco di Argo? Che in un viaggio gastronomico dall’Egitto al paese dei Parti le possibili varianti di un semplice piccione in umido sono quasi infinite?
Chi dei due ha ragione? Tutti e due. Oppure nessuno dei due, soprattutto se pretendono che il loro punto di vista sia l’unico sensato e legittimo. In realtà stanno semplicemente osservando le due opposte facce della stessa moneta: diverse e complementari come lo yin e lo yang, oppure la Destra e la Sinistra, oppure ancora il processo deduttivo e quello induttivo. È l’interazione tra le due facce che dà origine alla conoscenza, quella stessa che nessuna delle due è in grado di raggiungere se pretende di procedere in esclusiva solitudine.
E così, ti dice Platone, tu vorresti trattare della notazione musicale del Rinascimento: lasciamelo dire fin da subito, il tuo lavoro è inutile. Non c’è niente da spiegare. La notazione del XVI secolo è del tutto identica a quella che tu usi tutti i giorni: fa uso dei medesimi meccanismi grafici e li combina in base agli stessi elementari principi. Qualunque persona dotata di una buona preparazione musicale non impiega che qualche ora per rendersene conto e per imparare da sé a ricavarne il senso. Aspetta un attimo, ribatte subito Aristotele, il mio collega sta sicuramente scherzando: nel mondo della notazione musicale antica nulla è uguale a sé stesso. Ogni figura, ogni significato, ogni accezione non fa che trasformarsi continuamente; a distanza di vent’anni una semibrevis non è più la stessa semibrevis, e spesso non lo è neppure nello stesso istante se soltanto si vogliono percorrere i pochi metri che separano la Cattedrale dal Palazzo; ci sono in sacco di cose che devono essere spiegate con molta precisione e non conoscerle significa semplicemente non poter capire più nulla.
Come si può, ti chiedi perplesso, fondare un percorso didattico su questi strani presupposti? Ma poi ti viene da pensare che una soluzione c’è. Non devi basarti sull’uno o sull’altro, devi fare affidamento sull’uno e sull’altro: se la medaglia ha davvero due facce, allora è giusto considerarle entrambe. Allo stesso momento ti accorgi che in realtà il compito che ti stai proponendo non è neppure troppo difficile, il che tuttavia equivale a dire che si tratta di una impresa estremamente complessa: non si deve fare altro che trattare da costante ciò che rimane costante e trattare da transitorio ciò che è transitorio. Il pericolo da evitare è semplicemente l’opposto, descrivere quello che varia come se fosse un assioma stabilito oppure presentare un principio fondante come se fosse un casuale prodotto della mutevole moda del momento. Se l’impostazione didattica riesce a essere corretta, allora il percorso potrà coltivare l’ambizione di essere utile, anche molto, al suo destinatario. Nel momento in cui le cose sono descritte secondo il loro giusto aspetto, chi per sua natura è portato a cogliere da sé la costanza delle premesse potrà imparare quali sono le piccole determinanti sottigliezze che le orientano di volta in volta verso direzioni opposte; chi invece è bravo a riconoscere e apprezzare le più sottili sfumature di significato potrà scoprire quali sono i solidi legami che ancorano saldamente le loro infinite variabili alla tradizione musicale del loro tempo. A queste condizioni ti senti finalmente disposto a provarci: apri il tuo quaderno degli appunti, che scopri essere diventato un piccolo rotolo di papiro, e ti disponi a ascoltare quello che ha da dirti Platone.
1 – Slittamenti
L’unità nella molteplicità. Tutta la storia della notazione mensurale occidentale, fin dal suo primo apparire (a quel tempo, la musica polifonica aveva già alle spalle un secolo di storia e la notazione musicale anche più del doppio), è segnata e governata da un principio unico e immutabile: questo principio è lo slittamento dei valori. In una possibile analogia a rovescio con quella che gli economisti chiamano inflazione, con il passare dei secoli
la figura di riferimento su cui il musicista fa coincidere il conto del tempo
tende a spostarsi costantemente verso valori più piccoli.
Evitiamo di proposito la tentazione di stordire il lettore introducendo termini vagamente esoterici come tactus, mensura, depositio-elevatio e via dicendo. Chi esegue una musica polifonica delega una parte della propria attenzione a compiere una operazione apparentemente slegata dall’intento artistico che sta perseguendo: quella di mantenere una scansione precisa e costante del tempo. Il musicista rinascimentale conta mentre esegue la sua musica, esattamente come fa il suo collega moderno: la sua concezione del ritmo è tuttavia meno articolata di quella che noi, lettori di un altro secolo, troviamo naturale figurarci. Il musicista rinascimentale non numera i tempi 1 – 2 – 3 – 4 – 1 – 2 – 3 – 4, oppure 1 – 2 – 3 – 1 – 2 – 3 oppure anche 1 – 2 – 1 – 2, e così via: tutto quello che gli viene in mente è riferire i suoi calcoli al solo tempo primo 1 – 1 – 1 – 1. Esattamente così, senza suddivisioni e senza scansioni del tipo battere e levare; proprio come il rumore di un metronomo o il led di un apparecchio elettronico lampeggiante. “Come il battito del polso di un uomo sano”, amavano ripetere i trattati rinascimentali di teoria; analogia senz’altro fuorviante perché la frequenza cardiaca di un maschio adulto è decisamente più bassa della velocità minima che è necessaria per far funzionare un pezzo polifonico in assenza di un direttore. L’immagine è seducente ma la sua pertinenza è piuttosto limitata.
Il fenomeno dello slittamento dei valori non è difficile da descrivere. Nella notazione di un qualsiasi brano musicale esiste una figura di riferimento, e ovviamente soltanto una, che è associata al conto del tempo; esistono inoltre altre figure che sono rispettivamente multipli oppure sottomultipli di questa prima unità. I nostri manuali di teoria musicale non ci agevolano quando presentano la serie dei valori musicali sotto forma di una infinita cascata di suddivisioni, intero metà quarto ottavo sedicesimo e così via fino al centovettottesimo, come se l’abilità di un musicista dovesse corrispondere alla curiosa capacità di saper dividere un’enorme torta in fettine sempre più sottili al limite del microscopico. In realtà si può tranquillamente dire che la pratica musicale operi limitandosi a un totale di cinque figure in tutto: in una normale composizione l’unità di tempo, quella che coincide con il conteggio interiore di chi esegue, si accompagna per lo più a un paio di suoi multipli e a uno speculare paio di suoi sottomultipli. Le figure che si devono davvero misurare in senso discendente sono quindi soltanto due: i due multipli si devono calcolare in senso ascendente, vale a dire moltiplicando e non dividendo. Eventuali altre figure, quelle che generano suoni lunghissimi o fitte ripartizioni di abbellimenti, possono tutt’al più giocare il ruolo di effetti particolari; il quadro è piuttosto semplice e rimane sostanzialmente lo stesso in tutte le epoche e in tutti i repertori.
Chiarito questo principio di fondo, se a questo punto si esamina la notazione musicale nel suo sviluppo storico si può notare che il corso dei secoli comporta un fenomeno di ordine ben diverso: la serie delle figure in uso non rimane sempre identica a sé stessa ma si sposta progressivamente nella direzione dei sottomultipli. Più o meno nello spazio di quattro o cinque generazioni l’ultimo dei multipli presente al sommo della scala viene lentamente dimenticato mentre un nuovo valore, invariabilmente disposto come divisore dell’ultimo sottomultiplo, entra gradualmente in uso. È necessario precisare che questi cambiamenti non danno come risultato una progressiva accelerazione delle esecuzioni musicali, perché la velocità scelta dal cantore è soggetta per sua natura a una reazione di segno opposto: man mano che vengono introdotte figure sempre più piccole non fa che adeguarsi alla distribuzione dei valori correnti allargandosi insensibilmente. Il risultato è che nel corso di lunghi periodi anche il conto del tempo si sposta lentamente, in maniera altrettanto graduale e impercettibile, fino a coincidere con la figura inferiore. Se vengono misurate soltanto sulla scala dei decenni l’abbandono delle figure maggiori e la diffusione dei valori più piccoli, fino al cambio della figura di riferimento, suonano comunque come fenomeni irrilevanti; il risultato complessivo è osservabile soltanto sulla scala dei secoli e consiste in fenomeno che riguarda esclusivamente la notazione musicale, vale a dire in un generale e costante slittamento verso il basso della figura che rappresenta l’unità di tempo. Se fossero direttamente confrontabili a parecchi decenni di distanza, in definitiva, tutte le singole figure di un qualsiasi periodo storico si comportano come fa un brandy in una botte: con il passare degli anni acquistano valore e tendono a occupare uno spazio progressivamente più comodo.
Diamo un primo veloce sguardo alla Storia. Il sistema mensurale ha le sue origini nei primissimi anni del Duecento con la generazione che raccoglie l’eredità di Notre-Dame; il nuovo corso comincia quando il musicista impara a distinguere tra i cosiddetti signa materialia della notazione, vale a dire tra le singole figure. In quel tempo la scelta era ancora limitata a due soli segni grafici: la longa è la figura su cui si conta il tempo, corrisponde all’ultima trasformazione dell’antica virga e si presenta come un quadrato dotato di un gambo discendente sulla destra; la brevis, che si ricollega vagamente al punctum, è scritta con un semplice quadrato privo di appendici e costituisce l’unico sottomultiplo disponibile. In apparenza striminzite, queste risorse iniziano subito a sviluppare il loro potenziale: entro la metà del Duecento si precisa una duplex longa, probabilmente l’unica tra le figure a essere stata creata in forma di multiplo, ma fa la sua timida comparsa anche la coppia di semibreves che costituisce già il successivo stadio nella direzione dei divisori. Inizialmente considerata come una specie di risorsa eccezionale, tanto è vero che era ancora desunta da principi grafici di ascendenza medievale, in pochi decenni la semibrevis si trasforma in una figura come le altre prendendo la forma di una losanga posta in senso verticale. Agli inizi del Trecento il conto del tempo si stava infatti spostando verso la brevis e la pratica musicale, senza averlo neppure pianificato, si trovava già a disporre di due multipli al di sopra della figura di riferimento: cominciava inevitabilmente a fare la sua comparsa l’ultima figura, opportunamente detta minima per indicare che ora il sistema era completo e che più in basso di così non era possibile scendere. La previsione era fatalmente destinata a essere presto smentita ma come avremo modo di vedere non sarebbe rimasta priva di conseguenze.
Molta acqua doveva intanto passare sotto i ponti e molte altre cose interessanti dovevano succedere; finché osserviamo questo lato della medaglia, tuttavia, la nostra prospettiva non ci offre che una e una sola possibilità di vedere le cose. Sì o no, bianco o nero: un secolo e mezzo anni più avanti, negli ultimi anni del Quattrocento, il musicista contava il tempo in corrispondenza della semibrevis. Il sistema gli metteva a disposizione due multipli, sotto forma di brevis e di longa, e due sottomultipli sotto forma di minima e semiminima. Potrebbe mai un simile scenario risultare familiare per un musicista moderno? Sembrerà strano, ma per rendere conto di tutto quello che è successo da allora fino a oggi è sufficiente aggiungere soltanto un paio di passaggi. Nei primi vent’anni del Seicento il tempo si contava sulla minima e la longa era sostanzialmente uscita di scena, una scena in cui fusae e semifusae (finiremo per chiamarle crome e semicrome, alla francese) cominciavano a ritagliarsi il loro ruolo; il tempo di lasciar trascorrere il barocco e già ci troviamo di fronte al classicismo con la sua onnipresente semiminima a spartire i ruoli intorno all’unità di tempo. In questi repertori il musicista moderno comincia finalmente a sentirsi a casa; né lo spaventa più l’idea di aprire una partitura di Stravinski o di Bartók e di leggerla facendo i conti sulla base della croma e delle sue numerose discendenti ancora più minuscole.
Poco più di cento anni fa stavano nascendo i moderni Conservatori, istituzioni che si proponevano di rinnovare il panorama della competenza musicale in Italia: bisognava redigere nuovi programmi e nuovi corsi di studio e furono i didatti vissuti all’inizio del Novecento a assolvere a questo delicato compito. Per quanto riguarda il solfeggio e la lettura della musica si prescrisse lo studio approfondito della scrittura in quarti (due quarti, tre quarti, quattro quarti) in modo che lo studente fosse in grado di affrontare con sicurezza il repertorio della musica classica e romantica; ma si volle anche, con una certa qual lodevole lungimiranza, introdurre lo studio del due metà (tre metà, quattro metà) nel caso che lo studente avesse dovuto qualche volta avere a che fare con la musica di Corelli o di Pergolesi. Si riservò infine uno sguardo al due ottavi (tre ottavi, quattro ottavi) per poter coprire quelle musiche che al tempo si presentavano ancora come una porta aperta sul futuro.
Man mano che passavano le generazioni queste semplici scelte, portate avanti per molti decenni da una didattica sempre più slegata dalle nuove esigenze che stavano via via maturando, hanno finito per rendere pigra e stupida tutta la nostra generazione: sarebbe stato sufficiente allargare un poco il range delle opzioni disponibili per evitarci tante false partenze in materia di musica antica e rinascimentale. In termini concettuali, infatti, non esiste la minima differenza tra contare alla semiminima piuttosto che farlo alla semibreve o perfino alla longa: qualunque sia l’unità di tempo, non è questione di figure e neppure di colorazioni, nella notazione mensurale i meccanismi e i calcoli che regolano i rapporti tra i valori rimangono esattamente gli stessi. Per chi ha una minima competenza musicale può essere sufficiente illustrare il concetto mediante un semplice esercizio di solfeggio:
Quando le battute sono posizionate correttamente, la scelta dell’unità di tempo non implica nessuna difficoltà di lettura: la nostra mente vi si adatta istantaneamente così come si adatta al carattere corsivo, oppure tondo o anche maiuscolo, della scrittura. I problemi sorgono se mai quando un editore propone un rapporto insano tra l’unità di tempo e la distribuzione delle battute, ad esempio quando presenta una musica che è scritta alla breve collocando le stanghette come se fosse scritta alla minima; ma si tratta tutto sommato di patologie grafiche tipiche ormai di un’altra epoca. Ne consegue, per converso, che quando si edita la musica del passato è assolutamente vietato modificare i valori presenti nella scrittura originale; una simile operazione otterrebbe soltanto l’effetto di mandarla a spasso per altri secoli tagliandola fuori dal proprio vitale contesto cronologico.
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Puoi scrivere all’autore: luigilera@libero.it
Gli studenti più impazienti, giunti a questo punto, muoiono dalla voglia di cominciare a trascrivere qualcosa. Magari immaginandosi alle prese con carta pentagrammata, matita e una grossa gomma: non sanno ancora che per un editore della loro generazione il lavoro di messa in partitura diventerà al massimo una semplice formalità preliminare. È piuttosto giunto il momento di cominciare a condividere le nostre esperienze intorno al repertorio rinascimentale. Sappiamo bene che il web straripa di risorse dedicate alla musica del periodo che ci interessa, in forma sia di edizioni che di tracce audio, ma il pericolo nascosto è che le relative partiture riflettano scelte musicologiche ormai tramontate e improponibili; per questo motivo abbiamo creato il sito www.tmpol.it ed è da qui che inizierà il nostro percorso. Il primo compito del lettore è dunque quello di collegarsi, di scorrere il menu e di cominciare a studiarsi le musiche. La raccomandazione è quella di affrontarle dal punto di vista di un esecutore, ripetendo gli ascolti fino a quando ogni singolo brano non si sia impresso nella memoria; per ottenere qualche minimo risultato è necessario sforzarsi di imparare a leggere con facilità tutte le singole parti e di saperle cantare con sicurezza nel loro originale contesto polifonico.
Senza pretendere di indirizzare su una traccia obbligata la curiosità del lettore, possiamo proporre alla sua attenzione un semplice percorso; lasciamo alla sua iniziativa la decisione di seguirlo o di provare a inventarsene uno personale.
– composizioni in cui il tempo musicale si conta sulla semibreve. I brani qui raccolti costituiscono una specie di “stile classico” del Rinascimento, tanto è vero che la loro notazione è rimasta per secoli lo schema obbligatorio a cui hanno dovuto uniformarsi tutti i lavori svolti nelle classi scolastiche di Contrappunto. Li cercheremo verso la metà del XVI secolo; possiamo scegliere lo stile di Arcadelt, per esempio Il bianco e dolce cigno del 1538 che anche a quei tempi costituiva il tradizionale punto di partenza della didattica musicale.
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/arcadelt/il-bianco-e-dolce-cigno
Da lì è possibile spaziare su una scelta di altri madrigali dello stesso autore; per rimanere nell’ambito del Quinto modo possiamo leggere Non ch’io non voglio mai
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/arcadelt/non-ch-io-non-voglio-mai
che alla stessa maniera del brano precedente stupiva i contemporanei “uscendo di tono”, vale a dire abbandonando il normale fraseggio fa–do–sib-fa per andare a cadenzare, rispettivamente, a re oppure a sol. Una simile inquietudine armonica, genuino tratto distintivo dell’autore, caratterizza Se vi piace signora
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/arcadelt/se-vi-piace-signora
oppure Ancidetemi pur,
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/arcadelt/ancidetemi-pur
un brano che conoscerà parecchie rielaborazioni strumentali (Frescobaldi, Trabaci…) all’inizio del XVII secolo.
Volgendoci al campo della musica sacra possiamo proporre il gustoso inedito della Messa La sol fa re mi di Jacques Colebault, il futuro Jachet de Mantua,
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/jachet/missa-la-sol-fa-re-mi
il cui cantus firmus allude a un arguto gioco di parole; ma possiamo spingerci fino ai mottetti di Lasso
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/orlando-di-lasso/domine-convertere
oppure alle grandi opere policorali di Andrea e Giovanni Gabrieli che cominciano a muoversi occasionalmente nello spazio ristretto della minima.
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/andrea-gabrieli/filiae-jerusalem
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/andrea-gabrieli/hi-sunt-qui-cum-mulieribus
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/andrea-gabrieli/sancta-maria-succurre-miseris
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/andrea-gabrieli/angelus-ad-pastores-ait-a-4
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/andrea-gabrieli/angelus-ad-pastores-ait-a-7
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/giovanni-gabrieli/angelus-ad-pastores-ait-a-12
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/andrea-gabrieli/deus-misereatur-nostri
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/giovanni-gabrieli/deus-in-nomine-tuo
– composizioni in cui il tempo musicale si conta sulla breve. In questo caso è indispensabile tornare al secolo precedente, il XV, per trovare alcuni esempi paradigmatici. Dopo la metà del Quattrocento la scrittura alla breve segna un andamento nobile e solenne, adatto alle esequie di importanti personaggi; un celebre esempio è La déploration de Johannes Okeghem, il compianto musicale scritto da Josquin Desprez per il suo maestro sui versi di Jean Molinet;
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xv-secolo/josquin-desprez/nimphes-des-bois
altrettanto celebre, sempre costruito su un cantus firmus indipendente che qui è addirittura doppio, è Nimphes nappés.
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xv-secolo/josquin-desprez/nimphes-nappes
A questi brani si possono associare canzoni come Parfons regretz
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xv-secolo/josquin-desprez/parfons-regretz
e anche Mille regretz, Cueurs desolez o Basiez-moy; un caso particolare è il mottetto Tu solus qui facis mirabilia http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xv-secolo/josquin-desprez/tu-solus
con cui Josquin accompagna la cerimonia dell’Elevazione, a quei tempi talmente lunga da richiedere larghe sezioni in cui il tempo musicale viene temporaneamente sospeso. In parecchi passaggi il compianto funebre sull’austero testo di Angelo Poliziano che Heinrich Isaac, il fedele Arrigo tedesco, ha scritto per le esequie di Lorenzo il Magnifico
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xv-secolo/heinrich-isaac/quis-dabit-capiti-meo
tende già a scivolare verso la semibreve.
– composizioni in cui il tempo musicale si conta sulla minima. Possiamo a questo punto trasferirci negli ultimi decenni del XVI secolo per prendere visione del vastissimo repertorio che costituisce la musica delle Corti italiane sul finire del Rinascimento: il nome d’obbligo è quello di Luca Marenzio e dei suoi madrigali, praticamente tutti
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/luca-marenzio/zefiro-torna
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/luca-marenzio/non-vidi-mai
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/luca-marenzio/vezzosi-augelli
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/luca-marenzio/o-bella-man
anche se non mancano i casi come Tutto il dì piango oppure Ahi dispietata morte
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/luca-marenzio/tutto-il-di-piango
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/luca-marenzio/ahi-dispietata-morte
in cui la scrittura si richiama a modelli che appartenevano già al passato; ma è giusto citare anche Non sono in queste rive oppure Ecco mormorar l’onde,
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/claudio-monteverdi/non-sono-in-queste-rive
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/claudio-monteverdi/ecco-mormorar-l-onde
madrigali tratti dai primi libri di un esordiente Claudio Monteverdi. L’ultima raccolta da esaminare possono essere le Lacrime d’amante,
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xvi-secolo/claudio-monteverdi/lagrime-d-amante
altro esempio di compianto funebre in sestina che lo stesso Monteverdi ha scritto quando il secondo decennio del XVII secolo era ormai già iniziato da un pezzo.
– composizioni in cui il tempo musicale si conta sulla longa. Un conductus del XIII secolo tratto dal manoscritto di Firenze
http://www.tmpol.it/index.php/musiche/xiii-secolo/ave-virgo-virginum
ci trasporta infine ai tempi remoti in cui la duplex longa era ancora una entità indefinita (faceva fede il trattino verticale, predecessore allo stesso tempo della nostra pausa e della nostra stanghetta) e l’unico divisore disponibile era la breve; la notazione moderna può qui concedersi la licenza di arrotondare la forma quadrata delle figure.
Questo è tutto il compito che può essere proposto in questa prima lezione, e a volerlo fare bene ce ne sarebbe già abbastanza da poter dare alla classe un appuntamento a qualche mese di distanza; chi se la sente di bruciare le tappe può invece cercarsi sul web una qualsiasi stampa di mottetti di Palestrina, oppure il Primo libro dei madrigali di Arcadelt, e può cominciare a trasferirne le parti sul suo PC utilizzando un qualsiasi programma di scrittura. È possibile usare le chiavi moderne di Violino, Sol ottavizzato e Basso; è anche permesso copiare da altre trascrizioni. L’unico consiglio da dare a chi vuole cimentarsi in questo gioco è quello di tenere una misura non troppo larga, diciamo da quattro semibrevi, e di procedere per prove ed errori fino a quando la pratica non comincia a consolidarsi da sé. Non c’è neppure bisogno di un sentiero, il mestiere dello scalatore inizia sempre con tranquille passeggiate nel mezzo di prati fioriti.
Per scrivere a Luigi Lera: luigilera@libero.it