di Antonia Piva

 

 

(articolo pubblicato nel n. 11 della rivista musicologica Diastema, novembre 1995, rubrica “Estetica”)

 

La serenità è una virtù dei santi e dei cavalieri; è il segreto della bellezza e l’autentica sostanza di ogni arte. Il poeta che celebra lo splendore e l’orrore del vivere nel passo di danza dei suoi versi, il musicista che lo lascia risuonare come presenza pura, è potenziatore di gioia e di chiarezza sulla terra, anche se ci conduce attraverso tensioni doloro se e lacrime.1

 

Le parole di Hermann Hesse ci introducono in un itinerario nel mondo dei suoni e delle idee, partendo là dove, con i Greci, l’armonia sembra svelarsi come intima dialettica di patimento e di espiazione.

Il ritmo perfettamente pausato del tempio, nella scansione sapiente delle colonne, ci parla ancor oggi della serenità ellenica, non già come assenza di tormento, quanto, invece, come trasfigurazione del limite ab origine della natura umana nella consapevole acquisizione di misura. In modo analogo, la meditazione sulla tragedia cattura lo spettatore in una indicibile nostalgia di quella connessione tra innocenza e colpa che permeò il mondo classico, risolta nella decantazione del verso. È il cieco-veggente, Tiresia, che torna a profetare in noi: chiuso alla visione del mondo fenomenico, uomo vagante tra altri uomini vaganti, fa risuonare la propria profondità, recuperando l’essenza delle cose. Secoli e secoli dopo, ritorna l’archetipo della chiusura al mondo fenomenico come ineliminabile presupposto per la decifrazione del destino: l’isolamento di Beethoven che lo consegna all’eternità dell’arte.

Oblio e ricordo ci tentano e ci seducono, trasportandoci in un’arcana successione di silenzi e di suoni, luci e ombre, governata dalle Muse che ci infondono la conoscenza autentica, iniziandoci al canto. L’artista, posseduto dalle figlie di Zeus e Mnemosyne, si abbevera alla sorgente mitica delle origini e, nell’armonia del suono, riproduce la realtà primordiale di cui s’intesse il cosmo. Astraendoci sempre più dalla concretezza illusoria, la musica sale nel regno universale e infinito dello spirito: per i Greci, così, essa non è semplicemente l’arte dei suoni, ma l’evocazione delle nove Muse riunite nell’armonia eterna. Né è causale che gli albori della musica greca, al pari degli albori poetici, siano sublimati nelle interpretazioni mitologiche.2

E, ancora — se nella sua accezione generale il mito è l’animazione dei fenomeni della natura e della vita, nella forma primordiale, cioè intuitiva, della conoscenza, con una rappresentazione fantastica della realtà — mito e arte scaturiscono dalla medesima fonte psicologica. La capacità operante della mente umana di produrre simboli, allora, si rifrange a livello collettivo nel repertorio mitologico, mentre a livello individuale si esprime con l’arte, prolungando in tal senso il topos cosmologico della creazione divina, ove la definizione formale è, di per sé, assoluta necessitante bellezza.

L’intrecciarsi variegato tra mito e musica è fatto, dunque, intrinseco, in una complessa partitura ove si annodano inconfessabili pulsioni e catartiche consolazioni. Al pari del mito, la musica non è reale ma vera: non racconta certo fatti concreti, ma fornisce verità, cioè strutture e modelli per dare un nome alla sorte, un senso alla sofferenza, uno spazio alla speranza. La sovrapponibilità tra mito e musica si fa palese, appunto, nella tragedia greca, tanto che la definizione musicale della messa in scena non può essere sfondo o abbellimento, ma sintesi estrema del pathos drammatico.3 Lo stesso Wagner utilizzerà la musica come mito: nella sua drammaturgia, infatti, gli elementi storici, reali, non hanno più alcuna parte, mentre gli avvenimenti narrati sono privi di ogni precisazione temporale. La materia poetica è, dunque, mitica: partendo da valori simbolici patrimonio dell’area tedesca, si fa espressione della condizione universale dell’uomo. La cupa disperazione, la tensione a una pace infinita, la morte redentrice trapassano dalla tragedia greca ai drammi romantici, fissate alla verità eterna dell’archetipo mitologico.

 

 

 

 

Il binomio musica-poesia è anzitutto definito miticamente:

Orfeo, al cui canto si muovevano le rocce, s’ammansivano le belve e s’intenerivano le potenze infernali; Anfione, che eresse le mura di Tebe col suono della lira; il satiro auleta frigio Marsia, scorticato per la rivalità con Apollo…

I poemi omerici, dal canto loro, attestano l’arte rapsodica come tessitura delle imprese di dei ed eroi resa possibile dal privilegio divino. L’ispirazione era quasi un misterioso descensus ad inferos per liberarsi dal sonno dell’anima e pervenire a una piena conoscenza del passato dell’umanità. Nei suoi Sonetti a Orfeo, del 1923, Rainer Maria Rilke riscopre il fascino di questo viaggio tra i morti del mitico cantore:

 

Solo colui che anche tra ombre levò la lira,

può con cuore presago cantare la lode infinita.

Solo chi insieme coi morti mangiò il papavero, il loro, non perderà in avvenire

il più segreto dei toni.

 

Il complesso ordito di rivelazioni degli aedi poggiava su un’esatta definizione ritmica, con l’accompagnamento della cetra, sacra ad Apollo, e dell’aulòs, sacro a Dioniso. La prima, una sorta di piccola arpa, appesa al petto, con un guscio di tartaruga quale cassa armonica, godeva di maggior considerazione rispetto al secondo, uno strumento aerofono ad ancia, con una o due canne. Questo dualismo, del resto, riporta va alla diversa sfera d’incidenza delle due divinità: la serenante luminosità del logos apollineo, da una parte, e l’oscura violenza del pathos dionisiaco, dall’altra.

Il mondo antico non mancò di riflettere sul significato ultimo del termine ispirazione: infatti, al di là dell’abilità professionale riconducibile all’esperienza, sembrò ben chiaro che l’artista fosse un predeterminato dalla divinità per i suoi superiori messaggi, senza più padronanza o responsabilità del proprio essere. È la medesima visione in termini mitici dell’arte che Pukin riproporrà nel 1830, col suo Mozart e Salieri:

O cielo! Dunque dov’è giustizia, quando il sacro dono, quando il genio immortale non è compenso d’amore ardente, non di dedizione, di sudori, di zelo, di preghiere, ma illumina la testa d’un ozioso vagabondo, d’un folle?5

Così, i rapsodi sentirono in forma mitico-iniziatica la propria disciplina: pensiamo alla consacrazione di Esiodo sul monte Elicona, nel rapimento estatico operato dalle Muse, 6 o all’immagine tradizionale del cieco Omero, la cui invalidità è simbolismo fin troppo scoperto dell’accesso soprannaturale alla verità, che nulla ha a che spartire con la fallace conoscenza empirico-fenomenica. Cantami, o Diva: questa invocazione non è mero formulario, ma autentica definizione di una sublime esperienza spirituale, per la quale, nel canto, l’artista era medium tra l’onnipotenza creatrice degli dèi e la recezione ammirata e fideistica dell’uditorio. Il canto prodigioso dell’aedo riguarda il passato e il futuro e si riconnette con la poesia mantica; indissolubile, poi, è il binomio tra il contenuto, che ci apre le soglie dei sacri misteri, e la forma, direttamente attinta alla superiore armonia.7

Legandosi al mito di Orfeo, la musica, da semplice prassi edonistica, si svela quale rito salvifico. I culti orfici insistono infatti sul dualismo tra l’anima, prigioniera, e il corpo, oscura tomba, proponendo il ciclo della metempsicosi come fine ultimo degli iniziati. Orfeo, infatti, fu dilaniato dalle donne tracie di cui rifiutava l’amore, ma la sua testa e la sua lira, portate dalle onde del mare, giunsero all’isola di Lesbo, dove il suo canto continuerà a vivere: la musica è, dunque, mitica definizione del perenne succedersi di vita e morte.

 

 

 

 

La stessa psicanalisi si è accostata al mito di Orfeo per comprendere l’impulso alla creazione/espressione musicale, definendo come complesso d’Orfeo la tendenza a sublimare la libido nell’idea mistica e nell’idea musicale che, tra loro, sono inseparabili. Un eroe-musicista esiste, a ben guardare, in molte culture, basti pensare a Osiride, che per prima dissuase gli Egiziani dall’antropofagia e che fu la prima poetessa-musicista, mostrando la sublimazione della musica quale spinta civilizzatrice. Orfeo, dal canto suo, attesta il valore dell’emozione musicale nel cuore stesso del mito, con un’espressione eterna in chiave mistica delle suggestioni affettive che fin dall’infanzia ci avvolgono e ci trascinano.8

Già i Greci avevano una concezione filosofica della musica, quale forza trasformatrice di stati d’animo e di caratteri, nell’intersezione dell’ethos, ovvero la disposizione consapevole, e il pathos, la sensazione cui soggiacere. L’ethos poteva essere diastaltico, se incitava all’azione e all’eroismo (tragedia), sistaltico, se agiva sulla volontà soggettiva (lirica monodica), esicastico se si rivolgeva alle facoltà d’animo collettive (lirica corale). Parimenti, ogni modo musicale esprimeva un carattere diverso: virile e severo il dorico, appassionato e vibrante il frigio, doloroso e languido il lidio. I modi riandavano alla definizione dei diversi tetracordi, i gruppi di note discendenti alla base dell’intero sistema musicale ellenico.

Ma, più ampiamente, la lingua greca, fino a tutto il periodo classico, aveva di per sé connotazione musicale. L’accento intensivo si sviluppò, infatti, assai lentamente, a partire dal III a.C., mentre in precedenza vi era il solo accento tonico-musicale: pronunciare o, meglio, intonare una parola era, dunque, porre un ictus sulla sillaba, su cui incideva da una terza a una quinta più in alto che le altre sillabe della medesima parola. Così, in età classica, la veste musicale del canto greco muoveva dalla natura stessa della pronuncia, con il fluido adattamento alle parole di un nucleo melico, in base al loro accento o vocalismo.

A propria volta, il ritmo, ovvero la successione dei tempi, nacque dal principio di alternanza di lunghe e brevi della prosodia. Com’è noto, la metrica classica è quantitativa, carattere che perdurò anche nella latinità, con pienezza d’esiti fino alla crisi del III secolo d.C., se è vero che S. Agostino — autore del trattato De musica — affermava di non percepire più naturalmente la valenza prosodica delle parole, ed è il rappresentante più lucido della cultura tra IV e V secolo. Restando in ambito classico, non è possibile, tuttavia, istituire un’equivalenza tra metro prosodico e battuta musicale, se non in termini parziali, poiché il metro della poesia greca era determinato non solo dalla somma totale dei valori primi, ma anche dalla successione dei valori parziali. Alcuni esempi: a una battuta di 3/8 si riducono il giambo (breve-lunga = croma-semiminima) e il trocheo (lunga-breve = semiminima-croma), mentre al 2/4 si riconnettono lo spondeo (lunga-lunga = semiminima-semiminima), l’anapesto (breve-breve-lunga = croma-croma-semiminima) e il dattilo (lunga-breve-breve = semiminima-croma-croma). Il tessuto ritmico-poetico o ritmico-melico si sviluppò, infine, variamente, nella tragedia attica, ove la scansione metrica, come si comprende, è già, di per sé, musica.

Il coro greco cantava all’unisono, in rigida omofonia; nella prassi ellenica più comuni erano i cori maschili, nei quali i bassi sostenevano al grave, in consonanza d’ottava, la melodia sostenuta dai tenori all’ottava superiore. Le forme della melica corale, nobilitate da Pindaro e Bacchilide, confluirono nei cori tragici, con i decorum precipuo di una musica severa e aristocratica, con una sola nota per ciascuna sillaba, esito accentuato dalla sublime arcaicità della patina linguistica dorica.

I caratteri della musica di Eschilo sono definiti nelle Rane, la vivace commedia di Aristofane del 405 a.C., ove il poeta di Eleusi ha la meglio nell’agone con Euripide. La composizione eschilea si avvaleva di una cellula melica continuamente ripetuta, con un’infinita maestria da far risultare la ripetizione quasi inavvertita, molto vicino a come sarà col Leitmotiv di Wagner. Sofocle aggiunse un numero maggiore di coristi, indulgendo a forme melodiche chiuse, sempre con la sostanziale prevalenza del recitato. Euripide, infine, immise nella tragedia le innovazioni dei ditirambografi; si avvalse di scale cromatiche ed enarmoniche, 10 conducendo anche col metro lo spettatore a modifiche poco gradite, così come era stato con il suo tentativo di sottoporre a vaglio razionale il dogma mitico. E come l’antropocentrismo relativistico dei Sofisti ebbe il proprio riflesso

nella lucidità disperata dei monologhi euripidei, le monodie permisero il canto elaborato dei virtuosi, portando sempre più la tragedia dalla sua dimensione politico-liturgica al ruolo di palcoscenico intellettualistico-dialettico. Così, sia sotto il profilo contenutistico che sotto quello prosodico-musicale, Euripide, nello sviluppare pienamente tutte le potenzialità del genere, arrivò a una sorta di snaturamento della sua originaria concezione.

Pertanto, anche considerazioni di ordine metrico e musicale determinarono il successo, o meno, dei tragici e il coinvolgimento degli spettatori negli agoni teatrali, organizzati dallo stato per le periodiche celebrazioni religiose. Come si sa, ben nota era la fabula mitica, ma tutto lo spasmodico interesse, direi quasi l’interazione, del pubblico convergeva su altri fattori: il messaggio di volta in volta individuato nel mito, da un lato, e dall’altro le soluzioni propriamente drammaturgiche, non ultima la musica.11 Ancora una volta, poi, l’unicità della performance tragica (non c’erano repliche!), traducendo la fissità della forma scritta in mobile, irripetibile fragilità di suoni, gesti, pause propria dell’evento scenico, riproponeva il binomio musica-tragedia come trasposizione mitica della creazione divina.

 

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Tra i frammenti che ci documentano la melodia greca, uno solo riguarda la tragedia classica. È la melodia dei versi 338-343 dell’Oreste di Euripide, pertinenti al primo stasimo della tragedia.12 Letta in un papiro della collezione dell’arciduca Ranieri d’Asburgo, fu edita nel 1892 da Karl Wessely. Il brano è stato variamente interpretato, ora in base al genere cromatico ora a quello enarmonico. I segni della melodia sono sovrapposti alle sillabe del testo poetico, mentre i segni dell’accompagnamento strumentale sono inseriti nella riga stessa della poesia. L’armonia usata è la cosiddetta hyperlidia, con ritmo docmiaco (breve-lunga-lunga-breve-lunga), misurabile come 3/8 + 5/8 o viceversa. Questa base ritmica era ritenuta efficace per esprimere passioni tumultuose.

Questa la traduzione del frammento:

Mi affliggo per te.

È il sangue di tua madre che ti rese folle. La grande felicità per i mortali non è stabile.

Un demone con travagli tremendi la sommerge, come, avendo squassata la vela di vascello veloce, la sommerge nei flutti voraci e rovinosi del mare.

 

 

Di là dai tentativi guidati dall’acribia filologica, del resto, come possiamo, noi moderni, tornare a gustare lo spirito, se non la sostanza e il suono, della musica greca, quest’eco di dei e di eroi scomparsi, ma pur sempre aleggianti accanto a noi? Fu essa maggiormente vicina alla ritualità sorvegliata della liturgia bizantina, o alla barbaricità timbrica di Stravinskij o all’impressionante ritualismo etnico di Orffo, ancora, allo struggente lirismo di Mendelssohn o, infine, alla consapevole delicatezza di Henry Purcell, con il distico iniziale del suo Oedipus: “Music for a while / Shall all your cares beguile” (la musica, per un momento, ingannerà il vostro tormento)?

Differentemente dalle attestazioni musicali, ben noti ci sono gli elementi della teoria musicale greca, soprattutto grazie ad Alipio, ma anche ad Aristosseno, Plutarco, Aristide Quintiliano, Claudio Tolomeo, Porfirio13 e alle indicazioni più generali di Platone (particolarmente il III libro del Republica) e Aristotele. I documenti musicali, invece, furono tardivamente decifrati, a partire da Vincenzo Galilei, nel ta rdo Cinquecento, padre di Galileo e, soprattutto, membro della fiorentina Camerata de’ Bardi, il nucleo storico del melodramma. L’attenzione filologica non si isterilisce nell’erudizione, ma comporta una rinnovata linfa artistica. Il suo Dialogo della musica antica e moderna esce nel 1581; solo quattro anni dopo, il 3 marzo 1585, il Teatro Olimpico di Vicenza ospiterà la rinascita della tragedia greca, nella sua sintesi di teatro, scena, musica: i versi di Sofocle, ineludibili nella loro antinomia fato necessitante / libero arbitrio; l’aurea mediocritas degli architetti Palladio e Scamozzi; le trombe e i tamburi della solenne declamazione di Andrea Gabrieli. Testo, musica, scena, come nell’Atene del V secolo, concorrono a definire il percorso, insieme gnoseologico e metafisico, di Edipo, homo tragicus per eccellenza. Tale percorso è delimitato dai due poli dell’enigma, entro cui si muove una dialettica di opposti: l’irrisione enigmatica della Sfinge; la luce della vittoria razionale sul mostro; il buio dell’indecifrabile verità svelata dal cieco Tiresia; il buio della ragione umana annientata nella sua tracotanza; la luce definitiva del sacro bosco di Colono; l’enigmatica esaltazione che la dività assegna a chi seppe annientarsi nel vano mondo degli uomini.14

Accanto al recupero filologico del Galilei e alla ri-messa in scena vicentina, nasce il Melodramma, subito avvinto dal mito di Orfeo, basti pensare alla Euridice di Jacopo Peri, su testo di Ottavio Rinuccini, rappresentata per la prima volta a Firenze, a Palazzo Pitti, il 6 ottobre 1600, o all’Orfeo di Monteverdi, ospitato dal Palazzo Ducale di Mantova il 24 febbraio 1607. Tale fu l’evoluzione del genere: dapprima il tentato recupero della componente musicale nello spettacolo tragico, poi la fusione musica-parola di Monteverdi, quindi la supremazia definitiva della partitura, sempre però nella sua accezione tragica. Non già, dunque, narrazione banalizzante di katastrophè, ma consapevolezza della colpa ontologica caratterizzante la condizione umana, ove l’arcana grandezza risiede — come vide Pascal — nell’assoluta miseria. Nel recupero della tragedia attuato dal melodramma, possiamo distinguere due piani: anzitutto la riproposta della fabula tragica, in secondo luogo la riproposta della dimensione tragica dell’esistenza.

Alcune citazioni per il primo piano: Alceste di Lulli e Gluck, 1674 e 1776; Antigone di Honegger e Orff, 1927 e 1949 ; Ed i po di Purcell, Sacchini, Mendelsshon, Mussorsgkij, Stravinskij, 1692, 1787, 1845, 1861, 1927; Elettra di Strauss, 1909; Fedra di Pizzetti e Bussotti, 1915, 1988; Ifig en ia in Aulide di Scarlatti, Gluck e Cherubini, 1713, 1774, 1788; If i g e n ia in Tauride d i Traetta, Gluck e Piccinni, 1763, 1779, 1781; Medea di Charpentier, Cherubini e Pacini, 1693, 1797, 1843; Prometeo di Fauré e Nono, 1900, 1984.

Per il secondo piano, va chiarito che la dimensione tragica dell’esistenza non consiste nel succedersi di calamità o lutti, ma nella comprensione che la vita impone scelte, drammaticamente coinvolgenti: “che debbo fare della mia vita?”, si chiedono, al bivio della responsabilità, gli eroi tragici. In tal senso, il valore profondo della tragedia greca stringe e affratella molti personaggi del mondo operistico: da Norma a Don Giovanni, da Faust a Don Carlos… Più ampiamente, il mito di matrice greca si perpetua nell’ispirazione musicale dei secoli, basti pensare alla straordinaria longevità e duttilità di Prometeo, il Titano che, rubando il fuoco per gli uomini, aveva aiutato l’umanità a liberarsi dalla superiorità degli dèi, condannandosi alla punizione di Zeus. Mito straordinario, questo, che fonde nel proprio interno l’anelito alla libertà di coscienza e l’amore affratellante quale principio di civiltà. Prepotentemente, il Romanticismo si scopre figlio di Prometeo e fa tale professione in poesia come in musica. Un esempio suggestivo ci viene dai versi di Franz von Schlechta, apparsi a Vienna nel 1816, in occasione della cantata Prometheus di Franz Schubert (tuttora smarrita):15

Scosso nel profondo dei suoni, Mentre le corde vibrano in festa, Un mondo sconosciuto

Si è aperto alla mia anima.

Nel suono tempestoso dei Lieder L’umanità alza il suo lamento:

Oh, combattendo cade Prometeo,

E la pesante oscurità cade sul mondo. Mi ha esaltato, elevato,

E il nuovo piacere della tristezza Come una luce dall’alto

Mi ha riempito il petto commosso! E in lacrime e con gioia

Ho sentito il mio cuore andare in pezzi. Giubilando avrei immolato

La mia vita come Prometeo.

Il senso di assoluta precarietà dell’homo tragicus si traduce, infine, nell’orrore di un castigo a-priori, espressione dell’essere come caduta; l’ideale apofatico del non-essere è conquistabile solo come annichilimento catartico:

Non essere nati è la condizione che tutte supera; ma una volta apparsi, tornare al più presto donde si venne è certo il secondo bene (Sofocle, Edipo a Colono, 1224 ss.).

Questa è la definizione che informa e pervade ogni riscrittura musicale, in un dialogo di altissima astrazione tra pre-testo ellenico e partitura moderna. Aristotele vide, come si sa, nella catarsi il principale effetto/scopo del dramma classico, ma questa purificazione rituale delle passioni attraverso la loro rifrazione scenica è, a ben guardare, carattere legittimo del codice musicale nella sua complessa intersezione di spontaneità e di consapevolezza.

Ad esempio, la posizione della musica nel dramma greco venne delineata nitidamente da Gluck nella celebre prefazione al suo Alceste, con un vero e proprio manifesto della tragedia in musica. Quest’ultima ha la funzione di rafforzare il pathos e di sostenere l’interesse degli intrecci, senza spezzare l’azione od ornarla eccessivamente. La musica traduceva, dunque, in luci e ombre sonore il dolore del dio e dell’eroe in esso compenetrato, risolvendosi nella violenta compassione degli spettatori, con piena adesione all’estetica della catarsi. Nell’attimo in cui parola, gestualità, musica esprimevano il mito, esso era tanto più vero della generica estrinsecazione della realtà.

 

 

 

 

Interpretare il testo greco nelle susseguenti elaborazioni della musica non significa, banalmente, accompagnarlo, ma, anzitutto, leggerlo: quindi, non semplicemente rappresentarlo nelle sue situazioni empiriche, nelle congiunture temporali di chi lo scrisse, nelle referenze topo-cronologiche, ma rivitalizzarlo nelle sue inquietudini e nelle sue proposte etiche,16 senza sottrarsi alla domanda tragica per eccellenza — aut / aut — in quel paradosso di identità e di alterità che lega gli antichi a noi e noi a ogni altro uomo. La parola tragica è ambigua, ambigua come lo sguardo di Dioniso: una commistione di essere e di apparire, di essere e di dover-essere… Nel testo greco si intravedono — nella sottile trama di definizioni verbali, echi fonetici e allusioni sceniche — tutti i modi per noi possibili di esistenza, concorrenziali e auto-escludenti, mai evasivi. La ri-scrittura musicale dilata la polisemia dell’originale e, al contempo, la piega in scelte, definizioni, cristallizzazioni e, di nuovo, la propone all’ascoltatore in un infinito gioco di specchi, con sempre nuove ipotesi e concorsi. Leggere in musica un testo greco è riconquistarne l’originaria anima ritualistica, addentrarsi nel suo cuore di inconfessate pulsioni psicologiche e, soprattutto, cedere alla sua provocazione etica: leggere in musica è, allora, comprenderne e ripartirne la totalità dei progetti, porre un’altra volta ancora l’uomo al bivio cosciente della decisione, riproponendo, sempre, l’ambigua sapienza dell’oracolo socratico: conosci te stesso!

L’arte, dai greci, è suprema conoscenza, fondata sulla bellezza della verità più che sulla certezza della realtà:

Illusioni! grida il filosofo. Or non è tutto illusione? tutto! Beati gli antichi che si credeano degni de’ baci delle immortali dive del cielo; che sacrificavano alla Bellezza e alle Grazie; che diffondeano lo splendore della divinità su le imperfezioni dell’uomo, e che trovavano il BELLO ed il VERO accarezzando gli idoli della lor fantasia!”.17

Lo scontro tra vero e reale costituisce la dimensione tragica dell’esistenza e, infine, della musica che ne è lettura e, forse, anticipazione.

Tanto che le estetiche musicali si traducono, in ultima analisi, in etiche. Rifacendoci a Schopenhauer, la musica ci fa cogliere in modo immediato, col movimento del suo ritmo, la trascinante volontà cosmica, in antitesi alla disposizione estetica puramente contemplativa delle restanti arti.18 È l’annientamento del velo di Maia: la sconvolgente violenza del suono e, al contempo, il flusso unitario della melodia ci proiettano nel sentimento inappagato di un perenne anelare, gemere, esultare.

Dall’estetica alla metafisica, allora.

Come l’antico rapsodo, l’uomo scopre nella musica il codice medianico di decifrazione del mondo e, pari-menti, la definizione mitica di sé. Mito, tragedia e musica ci precipitano nell’abisso dell’annientamento e ci risollevano, a un tempo, trasponendoci catarticamente fuori da noi. In modo simile all’arcaica dialettica della cetra e dell’aulòs, ricompaiono con Nietzsche19 i poli della cultura tragica: l’apparenza apollinea anti-passiona le e l’essenza dionisiaca, invasiva. Proprio questo fondo magmatico, ove l’estasi si fondeva col dolore, era la genesi, a un tempo, della musica e della tragedia e, da ultimo, dell’uomo. Quanto noi andiamo chiamando civiltà, per Nietzsche una menzogna razionale e appiattente, non può sopprimere la verità naturale delle passioni umane, l’entusiasmo dell’uomo satiro rapito dalla vicinanza di Dioniso. Il sorriso beatificante di Apollo si corrompe e si dilata nella maschera orgiastica della suprema vittoria dionisiaca. Musica, tragedia e mito, nell’oscura nascita della grecità e dell’uomo, ne propongono subito l’intuizione concentrata, assoluta e obbligante: il mito, fissando l’esplosione emozionale in iterazione liturgica; la tragedia, proiettandoci nella nudità della scena a un tempo come soggetti-attori-spettatori; la musica, infine, accelerando il sicuro presentimento di una gioia ultima congiunta con l’eterno dolore.20 L’ingannevole contemplazione di Apollo o la tragica smorfia di Dioniso? La vita è, dunque, definizione for male assoluta o mobilità vitalistica ed eterno ritorno? Luce o tenebra? Questo bipolarismo ambiguo coesiste, da sempre, nell’uomo e, quindi, nella tragedia e, ancora, nella musica.

È la musica un perenne inganno fascinatore o una suprema precisione cognitiva? Il magico suono del flauto mozartiano, che scioglie i nodi interpretativi, libera dalle inquietudini individuali, ci proietta nella limpida fratellanza, o, piuttosto, la confusa malia dell’aulòs dionisiaco, quel suo pretenderci esausti ed ebbri? L’esercizio aritmetico di Leibniz o lo sfogo passionale di Vico? O, meglio, tutto ciò assieme? La musica, in definitiva, come lusus terribilmente serio e assolutamente vero, nella sua presunta illusorietà e, contemporaneamente, come eterna, enigmatica burla.

Conosci te stesso! … Forse il severo sapere di Eschilo, germinato dal dolore; forse la pacificazione senza suoni del sacro bosco di Sofocle; forse la disperata razionalizzazione di Euripide del saperci irrazionali.

Nel nostro secolo, Alfredo Casella parlerà di “egoismo creatore dell’artista e perfetta indifferenza verso qualsiasi legge estranea alla propria sincerità”,21 concentrandosi sul solipsismo drammatico del musicista, così come Maria Callas, greca di nascita e di sentire, riproporrà in musica la dimensione tragica dell’esistenza:

La vita è sofferenza, e chi dice ai propri figli il contrario è disonesto a malvagio. Vivere è lottare senza scampo. È una realtà uguale per tutti. Cambiano soltanto le nostre armi, e quelle usate a nostro danno. Ed è questo il destino, un miscuglio di fattori personali e di circostanze e ste rne.22

 


 

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NOTE

 

 

1  H. HESSE, Lekture für Minuten, Frankfurt a.M. 1952, tr. it. Letture da un Minuto, Milano 1990, p. 132.

2  Alcune indicazioni soltanto sulla musica greca. Cfr. A. LIPPMAN, Musical Thought in Ancient Greece, II ed., New York 1975; J. LOHMANN, Musikè und Logos, Stuttgard 1970; T H.J. MATHIESEN, A Bibliography of Sources for the Study of Ancient Greek Musik, Hackensack, N.J. 1974; A.J. NEUBECKER, Altgriechische Musik, Darmstadt 1977; B. GENTILI-R. PRETAGOSTINI, La musica in Grecia, RomaBari 1988.

3  Cfr. M. PINTACUDA, La musica nella tragedia greca, Cafalù 1978.

4 Cfr. J.P. VERNANT, Aspects mythiques de la mémorie en Grèce, “Journal de Psycologie”, 1959, pp. 1-29. Riflessioni più generali sulla natura del mito greco ci riportano ai saggi classici dello stesso Vernant e di Vidal-Naquet, di Graves, di Frazer, di Kerenyi, di Otto, di Eliade, di Kott e alla vastissima bibliografia che queste pagine, pur presupponendo, tralasciano per motivi di spazio.

5 La traduzione, tratta dalla scena prima del dramma, è quella di T. LANDOLFI, Torino 1985.

6 Si vada al proemio della Teogonia.

7  Cfr. C.O. PAVESE, Studi sulla tradizione epica rapsodica, Roma 1974.

8  Cfr. P.J. BUGARD, Le mythe d’Orphée et le symbolisme musical, “Revue Française de Psychanalyse”, VII, 2, 1934.

9  Cfr. L. GAMBERINI, La parola e la musica nell’antichità, Firenze 1962.

10 Cfr. M. VOGEL, Die Enharmonik der Griechischen, Düsseldorf 1963.

11 Cfr. C. DEL GRANDE, Espressione musicale dei poeti greci, Napoli 1932.

12 Cfr. L. RICHTER, Das Musikfragment aus dem Euripideischen Orestes, “Deutsches Jahrbuch der Musikwissenschaf”, 1971.

13 Cfr. Antiquae musicae auctores septem, edidit M. MEIBOM, Amsterdam 1652; Musici Scriptores Graeci, editit K. JAN, Leipzig 1895.

14 Si vedano gli interventi di D. DEL CORNO, A. FOLETTO, G. MAURI, per la prima del cosiddetto Progetto Edipo, Treviso, Teatro Comunale, gennaio 1995.

15 Cfr. H. GOLDSCHMIDT, Schubert, tr. it. Milano 1995, pp. 97-9.

16 Cfr. P. RICOEUR, Le conflit des interprétations, Paris 1969.

17 U. FOSCOLO, Ultime Lettere di Jacopo Ortis, Milano 1802, lettera del 15 maggio.

18 Cfr. A. SCHOPENHAUER, Die Weltas Wille und Vorstellung, Leipzig 1818.

19 Cfr. l’edizione critica Nietzsche Werke, Berlin 1973, tra cui gli importanti contributi contenuti in Die Geburt der Tragödie aus dem Geiste der Musik, La nascita della Tragedia dallo spirito della Musica, del 1872, dedicata a Richard Wagner.

20 Cfr. M. ELIADE, Le Myth de l’Eternel Retour, Paris 1949.

21 A. CASELLA, I segreti della giara, Roma 1947, p. 82.

22 R. ALLEGRI, La vera storia di Maria Callas, Milano 1991, p. 30.

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