di Luigi Lera
(articolo pubblicato nel n. 2 della rivista musicologica Diastema, aprile 1992, rubrica “Polifonia”)
Preludio
Ed ecco che l’insegnante di armonia, giunto ad un fatidico momento nel corso delle sue lezioni, si trova a dover spiegare ai suoi volonterosi allievi la forma della fuga. Non è difficile, tutto sommato, far loro capire che cosa è un soggetto e a quali requisiti esso debba rispondere, ma subito dopo iniziano a manifestarsi le difficoltà. Dato un soggetto, che cosa è la risposta? Ai poveri allievi viene fornita una definizione così semplice e lapidaria da sembrare assolutamente innocua: la risposta non è altro che lo stesso soggetto trasportato nel tono della dominante. Si tratta di una formuletta facile da memorizzare, che può anche apparire didatticamente efficace; nulla di strano nel fatto che abbia tanta fortuna. Ma attenzione: è una definizione assolutamente inesatta. La risposta al soggetto non è mai, in nessun caso, una trasposizione del medesimo nel tono della dominante. Ci mancherebbe altro! Dove andrebbe a finire la tanto conclamata unità tonale della fuga se soggetto e risposta si svolgessero in due toni diversi?
Che la storiella del tono della dominante sia una scappatoia miseramente insufficiente è noto a tutti: tanto è vero che l’insegnante, per primo, si affanna subito a spiegare che le cose non sono così semplici, che c’è il meccanismo della mutazione e che bisogna saper giudicare caso per caso; fatto sta che la prima idea che offriamo ai nostri allievi è del tutto lontana dal reale pensiero dei compositori classici. Come farebbe l’esposizione ad affermare chiaramente il tono di impianto se le voci saltassero come grilli da una modulazione all’altra?
Ci si chiederà: se siamo veramente consapevoli di fornire una spiegazione inadeguata, perché non andiamo in cerca di qualcosa di meglio? Evidentemente, bisogna riconoscere, siamo convinti di avere tra le mani un metodo tutto sommato non troppo distante dalla realtà. Può essere verissimo che questa proposizione abbia bisogno di essere collocata nel suo contesto esatto, possiamo pensare, ma intanto è almeno una buona direzione in cui orientare il lavoro fin dall’inizio.
La realtà è invece molto più scoraggiante: il povero studente viene costretto a ragionare in una direzione che non conduce assolutamente a nulla. Nell’esposizione della fuga, vale a dire nella sezione d’apertura della più classica e monolitica tra tutte le forme, può essere espressa soltanto una ed una sola tonalità: questa tonalità deve essere, necessariamente, proprio quella d’impianto. Probabilmente noi non riusciamo a renderci conto, fino al punto di toccare con mano, di quanto il meccanismo di costruzione della risposta sia realmente lontano dal modello che ogni giorno proponiamo ai nostri studenti: sarebbe quindi una buona cosa cercare di mettere un poco di ordine nelle nostre idee.
Un inganno che viene da lontano
Prima di provare ad addentrarci nella questione, sarà bene allargare il panorama storico del nostro discorso: l’equivoco di cui ci stiamo occupando ha infatti origini così lontane che converrà rinunciare per ora a descriverle. I due trattati sulla fuga che sono oggi correntemente usati risalgono entrambi, come concezione, all’ambiente delle classi di Composizione attive nel Conservatorio di Parigi tra la fine del secolo scorso e i primi decenni del secolo attuale. Il Trattato di contrappunto e fuga di Th. Dubois (1a ed. 1905; trad. it. E. de’ Guarinoni, ed. Ricordi) spiega la risposta con poche parole, ricorrendo semplicemente alla modulazione alla dominante; non è il caso di aspettarci delucidazioni, perché il metodo imposto agli allievi non sembra richiedere ulteriori discussioni. Da quali fonti Dubois avrà attinto le sue convinzioni didattiche? Chi gli avrà suggerito un simile procedimento? Il tono della sua spiegazione suggerisce che, già ai suoi tempi, quello della modulazione alla dominante era ormai l’unico possibile argomento legittimato dalla tradizione didattica. Se la fuga è reale, dice Dubois ai suoi smarriti lettori, fate la risposta reale; se la fuga è tonale, al contrario, fate la risposta tonale. Tante grazie, vorremmo rispondere, ma come facciamo a sapere quando una fuga è reale oppure tonale? La replica di Dubois è quanto mai sfuggente e si esaurisce in poche pagine fitte di esempi artificiali, tratti dalla cartella dei colleghi dell’autore o dal suo stesso bagaglio di maestro di composizione. Ben più in avanti cerca di spingersi il Trattato della fuga di A. Gedalge (1a ed. 1952; trad. it. R. Parodi, ed. Curci): la novità dichiarata della pubblicazione è il ricorso, guarda un po’, agli esempi di grandi autori per proporre temi e soluzioni stilistiche da offrire come modello agli allievi. Non bisogna sorridere: questo sforzo di uscire una buona volta dalle aule e di andare a leggersi la musica d’arte è stata davvero una conquista faticosa e sofferta. Sebbene le idee di Gedalge a proposito della risposta non siano troppo distanti da quelle del suo predecessore, egli spende più di quaranta pagine in un tentativo davvero lodevole di rispondere alle domande che erano rimaste in sospeso. Gedalge si sforza di creare una sintesi didattica più efficace di quella dei suoi maestri: cerca di dare ragione di ogni più piccolo dettaglio compositivo analizzando la risposta letteralmente caso per caso e nota per nota, formulando una miriade di regole che nelle sue intenzioni dovrebbero concorrere a formare una specie di legge generale capace di risolvere qualsiasi dubbio. La sua dimostrazione è senza dubbio arida e cervellotica, ma ha avuto un successo insperato perché per lo meno funziona perfettamente; si fonda sullo sforzo di distinguere quali sono le note che appartengono al tono della tonica e quali quelle che appartengono al tono della dominante. Inutile dire che le prime passeranno al tono della dominante nel corso della risposta, mentre le seconde compiranno il cammino inverso tornando al tono della tonica.
Evidentemente, l’idea di guardare ai maestri classici anche per cercare le regole di composizione era troppo ardita perfino per un didatta del calibro di Gedalge: invece di cominciare a mettere in dubbio il metodo ottocentesco di Dubois egli lo ha portato alle sue estreme conseguenze. Del resto, si era ancora negli anni in cui bastava un quarto grado alterato per far gridare alla modulazione: i maestri di composizione non consentivano ancora ai loro allievi di parlare di semplici accordi alterati o di dominanti secondarie, così che non c’è da stupirsi se tutto il discorso sulla fuga si svolgeva esclusivamente in termini di modulazioni e contro–modulazioni. Cosa dobbiamo dire, tuttavia, dei tempi di Bach, in cui il concetto stesso di modulazione era tutt’altro che definito teoreticamente? Il fatto è che la fuga affonda le sue radici, attraverso il ricercare ed il mottetto, nelle composizioni in stile polifonico del XV e del XVI secolo. Si tratta di generi musicali fioriti in epoche lontane, che rispondono a concezioni tonali assai diverse da quelle dell’epoca classica: è tuttavia in queste forme che bisogna cercare le ragioni più lontane dei meccanismi della risposta. Nella modalità del mottetto, come in quelle del madrigale cinquecentesco e della canzone quattrocentesca, risiede la chiave del meccanismo imitativo della fuga.
Modalità
La struttura armonica di una composizione polifonica appartiene, come è noto, al sistema della modalità antica: la melodia si colloca all’interno di un’ottava disponendosi secondo il modello autentico oppure secondo quello plagale. Il nostro discorso passa dunque obbligatoriamente attraverso questi due concetti: dire che una composizione polifonica appartiene ad un certo modo ecclesiastico, primo quarto oppure ottavo, equivale a dire molte cose ma può non essere sufficiente per illustrare convenientemente il meccanismo modale. La costruzione delle scale che noi troviamo sui libri di scuola, vale a dire il sistema dei modi ecclesiastici, risale al X secolo: l’ottava autentica presenta la dominante una quinta sopra la finalis, mentre l’ottava plagale presenta l’identica finalis ma pone la dominante soltanto una terza al di sopra. Per fare un esempio prendiamo, a caso, la scala di Fa.
Abbiamo volutamente concentrato la nostra attenzione sulle distanze che intercorrono tra la finalis e la dominante perché soltanto in questa ottica è possibile esaminare l’evoluzione delle forme gregoriane: attorno a queste note perno si collocavano anticamente la recitazione e le formule di ornamentazione. Lo sviluppo della polifonia, tuttavia, sposta il suo centro di interesse in una diversa direzione: la pratica polifonica pone esigenze assai diverse da quelle delle melodie dell’Ordinarium in canto piano. Man mano che le parti sovrapposte si moltiplicano, un polifonista ha sempre più bisogno di confini precisi in cui condurre le sue voci; niente di strano se egli comincia a considerare le ottave autentiche e plagali come precise regioni sonore entro cui collocare le diverse parti. L’interesse si sposta sempre più sulle note che costituiscono il limite di queste ottave. Ci si rende allora conto che le due ottave autentica e plagale hanno una zona in comune, vale a dire la quinta fondamentale tonica-dominante; la scala autentica aggiunge a questa quinta una quarta all’acuto, andando a raggiungere il raddoppio all’ottava della finalis. Da parte sua, la scala plagale aggiunge anch’essa una quarta, ma la colloca al grave andando a raddoppiare la nota limite superiore. Diciamo fin d’ora che questa nota limite assumerà sempre più la funzione di vera e propria dominante, finendo per eclissare per sempre l’antico ruolo della nota che si trovava a distanza di una terza.
Dalla scala modale alla scala tonale
La nascita della tonalità non modifica il concetto di scala che deriva dal vecchio sistema: qualsiasi melodia scritta dal XVII secolo in poi denuncia il suo impianto autentico oppure plagale per mezzo della sua disposizione all’interno dell’ottava. Una melodia autentica si estende dalla tonica all’altra tonica posta all’ottava superiore, passando attraverso la dominante: per restare all’interno della scala di Fa, che adesso è diventata maggiore, se ne veda un esempio nel notissimo Laudate Dominum (KV 339) di W.A. Mozart.
Una melodia plagale, al contrario, si estende dalla dominante al grave fino alla dominante all’acuto, passando attraverso l’unica tonica che si trova al centro e che mantiene la funzione di nota conclusiva. Se ne veda un esempio, impostato nello stesso tono del precedente, nella melodia della Marsigliese: la distinzione tra scala autentica e scala plagale è talmente connaturata allo stile tonale che l’altissima musica d’arte ed una canzone semi-popolare ne portano le tracce in maniera identica.
Disposizione delle parti
Per quanto riguarda la collocazione modale, la stesura di un madrigale o di un mottetto cinquecentesco rivela una caratteristica particolare: nella tessitura delle singole voci si alternano le due scale autentica e plagale. Se il Canto, a titolo di esempio, si svolge nell’ambito del modo autentico, l’Alto si troverà nel plagale; il Tenore starà nella maggior parte dei casi nuovamente nell’ottava autentica ed il Basso potrà tornare, eventualmente, nella regione plagale. Non si tratta di una regola fissa perché il compositore si sente libero di collocare le sue voci a qualsiasi distanza: può capitare di trovare due voci contigue collocate nello stesso ambito melodico, oppure, più raramente, a distanza di un’ottava esatta. Sarebbe tuttavia impossibile, tolti i pochi casi di canoni all’unisono, trovare una composizione rinascimentale in cui tutte le voci occupano lo stesso tipo di scala modale. La collocazione delle parti nei due diversi ambiti offerti dalla scala è la condizione indispensabile all’esistenza stessa dello stile imitativo.
Qui è necessaria una breve parentesi. Ci si chiederà: come è possibile, allora, decidere di assegnare un intero brano al modo autentico oppure al plagale? Le regole ci sono e non sono neppure tanto complesse, ma provare a darne ragione ci porterebbe inesorabilmente fuori strada. Chi si trovasse nella necessità di classificare la modalità di un madrigale oppure di un mottetto può cavarsela applicando una semplice regola pratica, vale a dire attribuendo a tutto il brano la modalità che appartiene alla parte del Tenore.
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Il meccanismo dell’imitazione
Quando una voce espone una frase tematica nel modo autentico, la voce che entra per seconda si trova dunque solitamente costretta a formulare la sua risposta nel modo plagale. In che cosa consiste la differenza? Non nel senso tonale, dato che la finalis rimane la stessa, ma nella disposizione dell’ambito sonoro. La parte che si muove nell’ottava autentica ha a disposizione una quinta al grave e una quarta all’acuto, entrambe collocate al di sopra della finalis, mentre la parte che si muove nell’ottava plagale deve fare i conti con una situazione esattamente opposta: la quinta si trova all’acuto e la quarta al grave, l’una sopra alla finalis e l’altra al di sotto.
Quando lo spunto melodico da imitare si trova nella scala autentica e occupa la parte grave, si trova a coprire un intervallo di quinta; se la sua risposta vorrà occupare lo spazio sonoro corrispondente, posto nella parte grave della scala plagale, dovrà invece occupare soltanto una quarta. Da questa considerazione scaturisce la necessità irrinunciabile che è la caratteristica più vistosa dello stile imitativo: la risposta non può essere identica alla proposta, ma deve essere assolutamente modificata nella sua estensione. Ecco un esempio notissimo tratto dalla Missa Brevis di A. Gabrieli. (Ed. Pizzicato, 1990)
Nel caso, più raro, che la proposta si trovi nella regione acuta della scala autentica, la risposta dovrebbe trovarsi nella zona corrispondente della scala plagale, vale a dire sulla quinta acuta plagale. Dovrebbe allora essere necessario allargarla.
In questo secondo caso il condizionale è d’obbligo per quanto riguarda la musica polifonica, perché nella maggioranza dei casi il compositore preferisce ripiegare su una specie di dominante di riserva e rispondere con una quarta fa-sib; con altrettanta frequenza egli preferisce rivolgersi ad imitazioni per moto contrario o comunque a figurazioni non rigorose.
Come si vede, la conquista della parte acuta della scala è stata più lenta e faticosa rispetto a quella, per così dire irrinunciabile fin dal primo momento, della regione grave.
Viaggio all’interno della scala tonale
La scala tonale non ha più il problema di una dominante plagale posta a distanze inferiori alla quinta; anche l’estensione della melodia è libera di superare, con sempre maggiore disinvoltura, i limiti dell’ottava. All’interno della tonalità, le due tessiture autentica e plagale rappresentano le due facce opposte della medesima medaglia: la prima esprime una tendenza per così dire centrifuga, avendo i suoi centri di attrazione e risoluzione alle estremità, mentre la seconda vive di un movimento centripeto scaricando tutte le sue tensioni sulla tonica che è collocata nel suo punto centrale. La forma della fuga non è altro che la realizzazione piena di questa doppia valenza che è la caratteristica più vistosa dell’intero sistema tonale. Il presupposto su cui la fuga basa tutta la sua struttura si riduce ad una frase semplicissima: il soggetto e la risposta si svolgono l’uno nella scala autentica e l’altro nella scala plagale che appartengono alla medesima tonalità. Essi esprimono in questo modo, e nella forma più completa, tutte le possibili capacità combinatorie del tono in cui la fuga stessa è impostata.
La mutazione
La scala è dunque vista come una porzione di spazio sonoro ritagliata a partire a un suono centrale fino a due note che fungono da limite: il tema che raggiunge una nota limite nel corso della proposta dovrà raggiungere la nota limite corrispondente anche nel corso della risposta. Sarà proprio la differenza di costituzione che distingue i due tipi di ottava ad obbligare il compositore a compiere una operazione che sembrerebbe altrimenti assurda: egli sarà costretto ad introdurre per lo meno una modifica passando da una scala all’altra. Ne consegue che la risposta ad un soggetto non potrà essere identica al suo modello: ad una quinta si risponderà con una quarta, ad una quarta con una quinta.
Da questo obbligo scaturisce la necessità di praticare una mutazione al momento della risposta: passando dalla quinta alla quarta la melodia dovrà restringersi. Se il tema è impostato sulla quinta, ad esempio nella parte bassa della scala autentica o nella parte alta della scala plagale, il compositore troverà la risposta corrispondente riducendo un intervallo. Una seconda diventerà un unisono, oppure una terza diventerà una seconda, oppure una quarta si trasformerà in una terza oppure, nel caso estremo, una quinta diventerà una quarta. Se invece il tema abbraccia una quarta, nella zona superiore della scala autentica o in quella inferiore della scala plagale, sarà necessario compiere il processo inverso ampliando convenientemente un intervallo.
Sarà opportuno fornire almeno un esempio: scegliamo, ancora una volta, il tono di Fa. Si tratta della Fuga in Fa minore dal Primo volume del Clavicembalo ben temperato di J.S. Bach.
La prima metà del tema si svolge nella quarta acuta della scala autentica: il compositore applica la mutazione corrispondente fin dalla seconda nota della risposta. Può sembrare una soluzione infelice, tanto è vero che la quarta nota finisce per trovarsi in stridente contrasto proprio con la tonica, ma a ben vedere è l’unica soluzione possibile: la mutazione sulla terza nota avrebbe creato un unisono (fa-sol-sol-fa#), quella sulla quarta addirittura l’inversione di un intervallo (fa-sol-fa-fa#); non sarebbe stato possibile neppure ritardare la modifica fino alla penultima nota (fa-solb-fa-mi) per non trovarsi con una inopportuna quinta giusta (mi-si) sulla sensibile.
La seconda metà del tema interessa la quinta inferiore della scala autentica e di conseguenza va a riflettersi sulla quarta inferiore della scala plagale: in questo caso la mutazione sposta più in alto la prima nota della scala cromatica (che dovrebbe essere mib-re-reb-do-sib) e rappresenta la soluzione più naturale.
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Partendo da queste considerazioni, è possibile catalogare le ventiquattro fughe che appartengono al primo volume del Clavicembalo ben temperato in questo modo:
1) Fughe che presentano la corretta successione, con mutazione, tra soggetto e risposta (soggetto nell’ottava autentica, risposta nell’ottava plagale o viceversa); caso per caso, si cerchi di ricostruire il ragionamento in base a cui Bach ha apportato le opportune modifiche passando da una scala all’altra. Si tenga presente che gli editori moderni “attualizzano” la grafia barocca, in cui le tonalità minori hanno in chiave un bemolle in meno: il sesto grado abbassato dovrebbe comparire soltanto dove è necessario, vale a dire quando è in relazione con il quinto.
Fuga II in do minore:
S. nell’ott. aut. do-sol-do
R. nell’ott. plag. sol-do-sol
Fuga III in do# maggiore:
S. nell’ott. plag. sol#-do#-sol#
R. nell’ott. aut. do#-sol#-sol#
Fuga VII in mib maggiore:
S. nell’ott. aut. mib -sib -mib
R. nell’ott. plag. sib -mib -sib
Fuga VIII in mib minore:
S. nell’ott. aut. mib-sib-mib
R. nell’ott. plag. sib-mib-sib.
Fuga XI in fa maggiore:
S. nella quinta aut. do-fa
R. nella quarta plag. fa-do
Fuga XII in fa minore:
S. nell’ott. aut. fa-do-fa
R. nell’ott. plag. do-fa-do
Fuga XIII in fa# maggiore:
S. nell’ott. aut. fa#-do#-fa#
R. nell’ott. plag. do#-fa#-do#
Fuga XVI in sol minore:
S. nella quinta aut. re-sol
R. nella quarta plag. sol-re
Fuga XVII in lab maggiore:
S. nella quinta aut. lab-mib
R. nella quarta plag. lab-mib
Fuga XVIII in sol# minore:
S. nell’ott. plag. re#-sol#-re#
R. nell’ott. aut. sol#-re#-sol#
Fuga XIX in la maggiore:
S. nell’ott. aut. la-mi-la
R. nell’ott. plag. mi-la-mi
Fuga XXI in sib maggiore:
S. nell’ott. aut. sib-fa-sib
R. nell’ott. plag. fa-sib -fa
Fuga XXII in sib minore:
S. nell’ott. plag. fa-sib-fa
R. nell’ott. aut. sib -fa-sib
Fuga XXIII in si maggiore:
S. nell’ott. plag. fa#-si-fa#
R. nell’ott. aut. si-fa#-si
Fuga XXIV in si minore:
S. nell’ott. aut. si-fa#-si
R. nell’ott. plag. fa#-si-fa#
2) Se il tema della fuga non raggiunge gli estremi del suo ambito, vale a dire se la sua estensione raggiunge una seconda oppure una terza (oppure anche una quarta, ma soltanto per un soggetto impostato nella quinta), la mutazione non sarà necessaria. In questo caso la teoria di scuola parla di risposta reale: come abbiamo visto, nel trattato di Dubois si parla senz’altro di fuga reale e di fuga tonale riferendosi a tutta la composizione. Si tratta di una distinzione che non ha alcun senso, perché nella fuga reale il meccanismo di collocazione della risposta nello spazio sonoro è assolutamente analogo, per così dire in tono più dimesso, a quello normativo della fuga tonale che prevede la mutazione.
Fuga IV in do# minore:
S. nella quinta aut. do#-sol#
R. reale nella quarta plag. sol#-do#
(la R. ritorna tonale nella quarta entrata)
3) La risposta reale può presentarsi anche nel caso che il tema copra soltanto l’intervallo di quinta posto al grave della scala autentica; il suono culminante viene per lo più trattato come nota di ornamentazione piuttosto che come vero e proprio suono strutturale.
Fuga I in do maggiore:
S. nella quinta aut. do-sol
R. reale nella quarta plag. sol-do
Fuga V in re maggiore:
S. nella quinta aut. re-la
R. reale nella quarta plag. la-re
Fuga VI in re minore:
S. nella quinta aut. re-la
R. reale nella quarta plag. la-re
Fuga XIV in fa# minore:
S. nella quinta aut. fa#-do#
R. reale nella quarta plag. do#-fa#
4) In certi casi, quando il sogetto è impostato nell’ottava plagale, anche una risposta che abbraccia l’intera ottava si comporta come nei due punti precedenti rinunciando alla mutazione. In questo caso essa assume davvero le apparenze di una piena trasposizione del soggetto nel tono della dominante.
Fuga IX in mi maggiore:
S. nell’ott. plag. si-mi-si
R. reale nell’ott. aut. mi-si-mi
Fuga XV in sol maggiore:
S. nell’ott.plag. re-sol-re
R. reale nell’ott. aut. sol-re-sol
Fuga XX in la minore:
S. nell’ott. plag. mi-la-mi
R. reale nell’ott. aut. la-mi-la
5) In altri casi rarissimi la risposta reale si presenta anche quando il soggetto è impostato nell’intera estensione dell’ottava autentica: il compositore preferisce ricorrere a questo artificio quando la doverosa mutazione stravolgerebbe troppo l’aspetto del tema fino a renderlo irriconoscibile.
Fuga X in mi minore:
S. nell’ott. aut. mi-si-mi
R. reale nell’ott. plag. si-si.
Proprio un caso come questo può essere stato all’origine dell’equivoco di cui ci siamo fin qui occupati: gli insegnanti di armonia hanno creduto di poter descrivere la risposta di tutte le fughe come una trasposizione del soggetto nel tono della dominante. Un procedimento decisamente eccezionale è stato trasformato nella norma, mentre la pratica quotidiana è diventata una specie di sotterfugio: la risposta per così dire più infelice, quella che deve piegarsi ad un compromesso, è divenuta la risposta reale, mentre il meccanismo che è musicalmente più naturale è stato bollato come tonale e trattato con degnazione come se fosse una imbarazzante scomodità. Non è neppure escluso che Bach abbia deciso coscientemente di elaborare questo soggetto così cromatico pur sapendo che la progressione armonica indotta dalla risposta reale gli avrebbe impedito di presentare una terza parte.
In conclusione: il soggetto e la risposta della fuga esprimono compiutamente le due possibili disposizioni nello spazio della stessa tonalità, quella in cui è impiantata la fuga stessa. L’una esprime la forma autentica della scala, quella che è compresa tra due toniche e che presenta la dominante come fulcro centrale; l’altra illustra le potenzialità della stessa scala nel settore plagale, quello che si estende da una dominante all’altra e che cerca la sua risoluzione nella tonica posta al centro della tessitura. Le mutazioni sono necessarie ogni volta che la quarta autentica deve essere trasferita nella quinta plagale e viceversa. In questo effetto di eco che non è un’eco, di trasposizione che non è una trasposizione, di inversione continua delle valenze tonali all’interno della stessa frase risiede tutto il segreto e gran parte del fascino della più classica tra tutte le forme.
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