di Mario Baroni

 

 

(articolo pubblicato nel n. 13 della rivista musicologica Diastema, luglio 1999)

 

 

Parlare del significato è uno dei più complessi e controversi problemi nel campo della filosofia della musica. Per introdurre la questione è bene ricordare che la parola “significato”, quando è applicata alla musica, può diventare estremamente ambigua. Insieme a molti altri termini derivati dalla disciplina linguistica essa rischia di diventare una pura e semplice metafora e di perdere le sue proprietà di definizione concettuale. Il significato di una parola, infatti, possiede certamente precisi scopi. Principalmente quello di definire le categorie di oggetti o di eventi che fanno parte dell’esperienza umana ordinaria. In secondo luogo, di distinguere un concetto da altri simili. In altre parole i principali intenti del linguaggio sono di ridurre le possibilità di ambiguità, di codificare le relazioni tra il significato e le forme fonetiche delle parole e di limitare, se possibile, le possibilità di tali relazioni codificate. Per queste ragioni le parole di un dato linguaggio sono stabili, finite nel numero e hanno un significato lessicale determinato dal dizionario.

Nella musica non esiste alcuna di queste condizioni: i suoi significati, anche se possono essere interpretati, non sono numericamente finiti poiché cambiano da composizione a composizione, e per questa ragione la musica non può avere un dizionario; in aggiunta, i significati non aspirano a categorizzare eventi o oggetti, ma piuttosto ad evocare esperienze esistenziali anche collegate a stati emotivi. In altre parole, se noi usiamo i due termini nel loro specifico senso linguistico, la musica non possiede reali proprietà semantiche e non ha reali significati. Ma nel linguaggio di tutti i giorni, e anche nelle conferenze scientifiche, noi insistiamo ad adoperare queste parole apparentemente senza alcuna difficoltà. In certi casi e in altre lingue si può osservare una ricerca di parole alternative, per esempio signification in francese o lo stesso senso in italiano. In altri casi appare lo stesso problema: quello cioè di comprendere più precisamente a cosa ci riferiamo quando parliamo del significato musicale e conseguentemente quale sia la differenza tra quello musicale e quello linguistico.

Per discutere adeguatamente questo problema sono necessarie tre condizioni: primo definire la natura non‐concettuale del significato musicale, secondo descrivere le sue relazioni con la struttura musicale e in ultimo indicare quale estensione sia possibile dare all’uso del linguaggio verbale per descrivere il significato di un brano musicale. Le tre parti di questo saggio si occupano di ciascuna di queste tre condizioni.

 

La natura del significato musicale

Cantare e ballare sono le comuni funzioni universalmente attribuite alla musica. Un ben noto corpo di ricerche antropologiche [Molino 1975] ha rilevato che l’idea della musica come autonomo fenomeno unicamente collegato all’ascolto, appartiene quasi esclusivamente alla cultura occidentale: l’antica greca musikè comprendeva una molteplicità di attività e lo stesso si può dire di molte analoghe parole africane. Il momento cruciale di questa idea occidentale della musica fu raggiunta nel XIX secolo con il concetto filosofico tedesco di Absolute Musik. In accordo con questo concetto la musica fu “assoluta” almeno sotto due punti di vista: primo di tutti perché essa doveva essere “contemplativa” di se stessa, come un oggetto estetico silente ed immobile; in secondo luogo perché era esclusivamente strumentale senza alcuna interferenza di parole, immagini, movimenti coreografici. Fu in questo contesto che, per giustificare il sorgere di una profonda esperienza emotiva non connessa ad alcun elemento esterno al suono stesso, emerse il problema di dare un significato alla musica. Il geniale libello di Hanslick [1854] fu uno dei primi a dare risposte a questo problema.

 

 

 

 

 

La pratica della musica strumentale “assoluta”, tuttavia, ebbe il suo inizio due secoli prima, nella musica barocca italiana. In questo differente contesto culturale è forse possibile trovare qualche iniziale spiegazione a qualcuno dei futuri problemi. Lo stile della musica strumentale barocca ha due principali origini: la musica vocale e la musica da ballo. I modelli polifonici quali il Ricercare e la Fuga derivano dalla musica vocale sacra, dai quali derivano la solennità e la severità come una sorta di memoria emozionale e comportamentale. Altri generi strumentali come la Toccata organistica [Darbellay 1977] e la violinistica Sonata a tre [Piperno 1990] hanno i loro principali modelli melodici nel “recitar cantando”: aspetti come le cadenze, culmini, sospensioni, rallentandi, accelerati, accentuazioni, e altri furono tutti originariamente intesi come “imitazione” della pronuncia delle parole [Galilei 1581], ma i loro significati convenzionali si sono conservati anche in assenza delle parole. L’organizzazione retorica di molte composizioni del repertorio vocale era basata sulle necessità intrinseche del recitare un lungo testo verbale, come nel caso di molte parole di Monteverdi. Le stesse regole di organizzazione del tempo passarono direttamente nella musica strumentale quando essere divennero convenzione formali. Un’altra importante caratteristica dei primi esempi di musica puramente strumentale è la loro tendenza verso una regolarità metrica. In questo caso i modelli sono da ritrovare nella musica da ballo e i loro generi tipici sono quelli della Sonata da camera.

I principali problemi strutturali affrontati dai compositori di questo periodo consistevano in come inserire melodie espressive in una griglia di pulsazioni regolari, per trovare efficaci schemi ritmo‐armonici e di fraseggio melodico, e allo stesso tempo dare alla composizione strumentale una coerente organizzazione temporale. La musica strumentale era basata su schemi di gesti vocali e fisici, ma era tecnicamente elaborata in una particolare e complessa nuova sintesi. Nei modelli vocali e di danza originali le strade per interpretare i significati del linguaggio musicale erano ovviamente suggeriti dalle stesse parole o dai movimenti coreutici. Nella nuova situazione essi erano assegnati convenzionalmente agli eventi strutturali corrispondenti, e questa eredità passò inconsciamente alla competenza musicale di molte generazioni di ascoltatori e compositori successive. Le intuizioni di Roland Barthes [1953] sul passaggio di schemi stilistici da un testo all’altro, o le analisi di Kofi Agawu [1991] nel più specifico sistema musicale dello stile classico, cioè le cosiddette teorie “inter‐ testuali” applicabili anche alla musica, possono aiutare a dare alle sopracitate trasformazioni stilistiche un più ampio contesto teorico. Osservato da questo punto di vista, il problema acquista un’ulteriore senso: i significati attribuiti agli aspetti strutturali della musica strumentale furono capaci di raggiungere importanza perché essi passarono da compositore a compositore e dai compositori agli ascoltatori; in altre parole, a causa di ciò essi divennero un fenomeno sociale e implicarono un’ampia diffusione di esperienze. Sebbene queste accettate convenzioni sociali non possano sempre essere esplicite o conscie, tuttavia non ebbero alcuna difficolta a passare da mente a mente e da epoca a epoca. Un gran numero di suggerimenti, osservabili negli scritti di musicisti e musicologi del XIX secolo [Bent 1994], mostrano che certe convenzioni gestuali erano ancora presenti quando l’idea di musica assoluta si impose nell’estetica europea. La ricerca scientifica dedicata al problema delle relazioni tra movimenti fisici e la musica [Trevarthen 1999‐2000, Krumhansl‐Schenck 1997] conferma la fisiologica e psicologica profondità del fenomeno e, per questa ragione, può aiutare a spiegare perché certi eventi sono stati in grado di permanere quale ininterrotta tradizione per così tanti secoli.

Un’altra importante e particolare origine del significato musicale si trova nelle tradizionali connotazioni assegnate ai differenti strumenti dell’orchestra, principalmente, sebbene non esclusivamente, collegate alle loro provenienze storiche e antropologiche. Per esempio, l’eredità pastorale del suono dell’oboe, le associazioni militaresche della tromba o quelle della caccia collegate al corno, sono state frequentemente usate per comunicare particolari significati basati su convenzioni interpretative sociali già accettate. Convenzioni come queste derivano da situazioni geografiche: un particolare uso della chitarra evoca la Spagna e molti timbri strumentali sono correlati a specifiche culture: Sardegna, Sicilia, India, Giappone e così via. Certe evocazioni “geografiche” non sono però riconducibili a timbri orchestrali, ma piuttosto ad altri aspetti quali una scala esotica o una particolate forma di cadenza (per esempio la quarta discendente nella musica russa). Gino Stefani [1987], inoltre, ha osservato che molte pratiche sociali (marciare, danzare e altri comportamenti rituali collegati alla musica, così come alla gestualità o alla simbologia ideologica) lasciano le loro tracce nella musica strumentale e nelle convenzioni interpretative poi tramandate alla società.

I timbri orchestrali, comunque, hanno altre fonti di significato, non de‐ terminato dalle loro origini, ma dalle loro qualità intrinseche. Il famoso Traité d’orchestration di Hector Berlioz [1843] è a tal riguardo una vera miniera d’informazioni. La maggior parte della ricerca scientifica sull’argomento — per esempio [Bismarck 1974] e [Erickson 1975] — mostra che nella tradizione musicale occidentale la percezione del suono è sinesteticamente collegata alle sensazioni di natura visuale (oscurità, luminosità) o tattile (delicato, ruvido, duro), a impegni fisici (pesantezza, leggerezza) o dimensioni (sottile, vasto). Analoghe osservazioni sono state fatte dalla ricerca linguistica nel campo del cosiddetto «simbolismo fonetico» [Dogana 1983], ma nel caso della musica il trattamento della texture, ben conosciuta nella pratica analitica, può moltiplicare questi effetti sinestetici, per esempio con i significati di accumulazione e rarefazione, densità e trasparenza, ascesa e discesa. Sensazioni di forza o di debolezza sono piuttosto ovviamente dovute ad analoghe qualità dinamiche.

Da questo breve sguardo si può vedere che la natura del significato musicale può essere collegata ad una molteplicità di settori dell’esperienza. Sembra anche che il significato musicale non abbia né la funzione di dividere gli eventi del mondo in categorie concettuali, né la possibilità di alludere a tutti gli aspetti dell’esperienza umana, molti dei quali sembrano essere fuori dal suo dominio. Ma è importante sottolineare che le relazioni tra i significati musicali e le strutture musicali che hanno il compito di trasmetterli, non sono lasciate alle preferenze individuali, ma sono effetivamente governate da diffuse convenzioni sociali, anche se esse sono state acquisite semplicemente attraverso l’ascolto. L’ultima condizione spiega, tra l’altro, perché bambini piccoli sono in grado di interpretare alcuni aspetti elementari della musica, un’opportunità che viene sfruttata nell’educazione musicale [Tafuri 1987]. Più in generale, è plausibile dedurre da questa massa di dati e suggerimenti che la musica può essere pensata come una sorta di linguaggio e quindi può avere certe proprietà linguistiche, soprattutto quella di possedere «significanti» [Saussurre 1992] o un «livello di espressione» [Hjelmslev 1961] che deve essere in grado di evocare, o deve essere relazionato a, il “significato” o un livello di “contenuto”. Uno studio specifico dedicato alla natura psicologica di tali collegamenti non è ancora stato fatto, ma noi possiamo sperimentalmente osservare che essi sono caratterizzati da aspetti di somiglianza tra la struttura dei suoni e quella dell’esperienza umana a cui i suoni alludono. Questa è una delle ragioni perché i termini “alludere a” o “evocazione di” sembrano essere più adatti alla musica che il termine “significato”. Nel linguaggio verbale questa relazione è normalmente definita come “arbitraria” perché non c’è somiglianza tra il significante e il significato. Solo certe specie di parole (per esempio le onomatopee) sono collegate ai loro significati attraverso relazioni di similiarità, cioè in una forma “motivata”.

Il prossimo paragrafo cercherà di spiegare quali sono i ruoli strutturali di questo “linguaggio” musicale e come essi possono produrre forme di similiarità “motivata” attraverso gli aspetti di senso a cui sono in grado di alludere.

Ti piace questo articolo?

Se desideri essere sempre aggiornato sui nuovi contenuti e pubblicazioni di Diastema

iscriviti gratuitamente alla nostra newsletter

 

Grammatica musicale

L’autore del presente saggio insieme a due colleghi, ha recentemente pubblicato [Baroni, Dalmonte, Jacoboni 1999] i risultati di una ricerca rivolta allo studio sistematico delle regole di un particolare stile musicale. Il repertorio scelto per questo studio è rappresentato da arie tratte da cantate da camera Giovanni Legrenzi. Le analisi hanno preso spunto dall’osservazione che un numero di eventi musicali hanno coinvolto sempre gli stessi aspetti strutturali, nello stesso ordine e nella stessa quantità: un esempio di tali eventi è la dimensione della frase, altri sono le forme delle cadenze, la corrispondenza tra gli accenti verbali e metrici, la natura delle successioni armoniche, ecc. Tutto sembrò accadere come se il compositore avesse seguito particolari regole e le avesse rispettate mentre componeva. Questa non è una novità: uno degli scopi dell’analisi è quello di trovare regolarità e un compositore segue sempre delle regole mentre compone. Ma qual è l’esatta natura di tali regole? Sono esse descrivibili? Un particolare problema a questo punto sorge: mentre le regolarità strutturali sono in un testo sempre concretamente osservabili, le regole non sono nel testo, ma nella mente del compositore. Dal punto di vista analitico esse sono mere ipotesi.

 

 

 

 

La situazione musicale è abbastanza simile a quella della grammatica linguistica. Nella pratica linguistica l’unica via per confermare l’ipotesi dell’empirica, psicologica esistenza di regole grammaticali è quella di dimostrare la loro possibilità di produrre frasi che possano essere giudicate grammaticalmente corrette da parte di chi parla una lingua. Nel nostro caso la grammatica doveva, in teoria, produrre musica che un ascoltatore competente potesse ragionevolmente giudicare corrispondente alle arie di Legrenzi. Così abbiamo deciso di costruire un sistema di regole ipotetiche in grado di “descrivere” esaustivamente le strutture usate nel repertorio e fornire le regole al software che produce la musica “legrenziana”.

Inizialmente ci aspettavamo che le arie risultanti potessero essere giudicate musicalmente “corrette”. Un giudizio di “correttezza grammaticale”, tuttavia, presto apparì non plausibile: cos’è la correttezza nella musica? Solo la proibizione delle quinte e delle ottave parallele, e altre simili prescrizioni? I risultati del computer ci insegnarono che nella musica un linguaggio “ordinario” o “quotidiano” distinto da quello artistico non esiste, e che tutte le regole hanno esclusivamente propositi stilistici. Più precisamente questo significa che esiste un’altra fondamentale differenza tra il linguaggio e la musica: il primo ha un sistema fonetico che punta a produrre termini lessicali collegati a significato concettuali e ha regole sintattiche che governano le relazioni tra i termini lessicali di una frase. La “correttezza grammaticale” dipende da questo specifico sistema di regole che sono applicate nel linguaggio ordinario. Solo al di fuori di questo uso un linguaggio può trasportare altri “significati” che mirano ad evocare esperienze di vita e non a produrre una comunicazione concettuale: significati evocati per esempio dal ritmo del discorso, dalle sue proprietà fonetiche, dall’uso di connotazioni, da tutte le risorse delle consuetudini poetiche del linguaggio. La correttezza grammaticale si riferisce al primo dei due livelli, quello del linguaggio quotidiano, e non al secondo livello “poetico”. La musica, tuttavia, possiede esclusivamente questo secondo livello. Questo non significa, tuttavia, che la musica non ha regole e non possiede sintassi, ma che le sue regole e la sua sintassi hanno funzioni differenti rispetto al linguaggio ordinario, e che il concetto di “grammatica” è differente nei due sistemi: quando si riferisce alla musica non ha lo stesso significato. In alcuni casi noi decidemmo di accettare questa trasposizione e di usare lo stesso termine, in maniera di evidenziare che le regole musicali sono ampiamente basate su distinte entità. Solo gli aspetti ben definiti sono infatti considerati nella grammatica musicale: gli accenti metrici, le durate, le altezze, gli intervalli, gli accordi, le scale, i gradi della scala, ecc. Questo rende le sue regole esattamente definibili, nello stesso modo in cui le regole di una grammatica funzionalmente differente sono esattamente definibili.

Le cose più interessanti che abbiamo imparato dai risultati del computer sono state che i testi prodotti automaticamente dalla macchina non solo avevano strutture simili a quelle del repertorio di riferimento, ma anche che gradualmente tendevano a riprodurre i suoi caratteri espressivi: le arie del computer non sono arbitrarie successioni di note, ma sono composizioni che possono creare un senso all’ascoltatore, e che in qualche caso potrebbero essere interpretate come “vere” arie del XVII secolo. Questo singolare fenomeno dà una concreta dimostrazione della distinzione proposta da Umberto Eco [1979] tra intentio auctoris (le intenzioni espressive dell’autore “empirico” del testo) e intentio operis (i contenuti che un testo può comunicare, indipendentemente dall’intenzione dell’autore). Nel nostro caso, era certo che il compositore delle arie meccaniche, il computer (che ha fatto le sue scelte sulla base di una serie di numeri casuali), non aveva intenzioni espressive. Qualsiasi espressione che l’ascoltatore può avere sentito era stata semplicemente inclusa nelle regole (intetio operis). Il “significato” musicale delle nostre arie meccaniche (l’interpretazione che ha permesso all’ascoltatore di trovare plausibile riferimenti all’esperienza umana) non è stata derivata da una grammatica, ma da regole strutturali, cioè da un sistema di collegamenti tra certi aspetti caratteristici che erano conosciuti e usati comunemente al tempo di Legrenzi. È perciò possibile immaginare che ogni epoca e ogni stile abbiano le loro specifiche regole, differenti da quelle di questa o di quell’altra epoca e stile.

Ma altri aspetti più specifici del significato musicale emergono dalla ricerca legrenziana. La più importante è la distinzione tra le differenti categorie di regole. Nel nostro esperimento abbiamo inserito nel computer solo un complesso di regole: quelle che erano comuni a tutte le arie del repertorio. I “significati espressivi” dei componimenti del computer sono esclusivamente il risultato di queste regole “generali”. Abbiamo anche identificato, in qualche dettaglio, ma senza darle al computer, regole “specifiche” che erano riferite a singoli frammenti di un’aria e che modificano qualche aspetto delle regole “generali”. Normalmente certi frammenti erano collegati alle parole del testo. In uno di essi, per esempio, il poeta parlava di un serpente nel petto dell’amante (Nutro il serpe nel mio seno) e molti aspetti della struttura sono diventati insolitamente tortuosi, per dare senso alle particolari modificazioni delle regole ordinarie; in un altro caso le parole alludevano ad una situazione eroica (Mia ragione all’armi all’armi) e qui la musica ha adottato i tradizionali modelli “da battaglia” comuni a quel tempo. In certi esempi particolari regole prendono momentaneamente il posto di altre più “comuni”. Noi chiamiamo la precedente categoria “regole specifiche di espressione” e le ultime “regole diffuse di espressione”. La differenza tra le due categorie di regole non dipende dalla loro più o meno estesa applicazione. È soprattutto una faccenda che riguarda la loro natura: un’usuale forma di espressione, il comune carattere espressivo di tutte le arie di Legrenzi, nonostante siano indiscutibilmente presenti, sono difficili da descrivere in termini verbali e così la loro natura, lontano da apparire immediatamente “semantica”, sembra essere più vicina a quanto R. Jakobson [1970] o N. Ruwet [1972] hanno chiamano self‐significant. Una specifica forma di espressione, al contrario, è più facile da definire e ha aspetti più somiglianti a quelli di un significato concettuale. La differenza corrisponde a ciò che, nella terminologia della teoria semiotica, è stato chiamato semantica interna ed esterna [Nattiez 1989] e significato congenere ed extragenere [Coker 1972]. Un’altra importante categoria di regole concerne quelle che sono applicate non all’intero repertorio, né a brevi frammenti di arie, ma a singole composizioni. Ci sono arie, per esempio, particolarmente brillanti e altre particolarmente lugubri dove le comuni regole vengono applicate, ma con una percentuale di scelte differente per certi tratti ritmici, melodici e armonici. In questo caso abbiamo avuto a che fare con “meta‐regole” che governano altre regole senza cambiarle. I risultati semantici delle meta‐regole non sono così bene definibili come quelle di “espressione specifica”, ma non sono così vaghe come quelle di “espressione diffusa”. La loro presenza mostra che la differenza tra l’espressione specifica e quella diffusa potrebbe essere considerata come una sorta di “continuum” senza una precisa distinzione tra i due livelli.

È importante ripetere che le scelte fatte dal computer non erano dirette da input semantici. Questo significa che le scelte erano sempre fatte casualmente fra le varie regole permesse; in altre parole, il loro unico compito era di rispettare le possibilità strutturali e grammaticali e non di ricercare risultati particolarmente significativi. Le arie composte dal software hanno mostrato che certe regole as‐ sicurano collegamenti interpretabili tra differenti aspetti strutturali e producono effetti espressivi in tutti gli ascoltatori che hanno una competenza in questo stile. Ovviamente i risultati ottenuti attraverso le scelte casuali del computer erano prive di significati originali. Un ascoltatore potrebbe accettarne una o due di queste arie. Ma un centinaio o un migliaio di arie (che il computer può facilmente comporre e che ha effettivamente composto) producono un senso di stanchezza dovuta dall’assenza di interesse creativo. Il principale risultato dell’esperimento, tuttavia, è stato che la semplice applicazione di regole strutturali è in grado di produrre un particolare tipo di significato musicale: le arie possono essere considerate “espressive”. Le relazioni “di affinità” tra le esperienze umane, in questo caso particolare, non sono facile da descrivere. Esse possono essere sentite come allusioni a comportamenti gestuali di un’epoca, ad una vaga evocazione di lamenti di un’amante infelice, o all’abitudine di usare il lamento come un’elegante forma di seduzione. Ma la loro interpretazione verbale non è strettamente necessaria per capire che le arie “fanno senso”.

Una grammatica musicale può essere definita come un complesso di possibilità espressive che i compositori e gli ascoltatori hanno a loro disposizione: i primi per comporre, i secondi per interpretare la musica. Certe possibilità implicano due differenti mezzi: un sistema di regole strutturali fissate dalla cultura di una data epoca (per esempio le più o meno esplicite e conscie regole del ritmo, della struttura melodica, del contrappunto, dell’armonia, della forma, ecc.) e, allo stesso tempo, un sistema di convenzioni semanticamente accettate (anche meno esplicite e consapevoli delle precedenti), che permettono all’ascoltatore di interpretare le strutture musicali come allusioni affini alle esperienze umane. Le regole strutturali e le convenzioni semantiche si applicano entrambe agli aspetti specifici e particolari (o ai sistemi di aspetti) della struttura (ritmo, profilo melodico, successioni armoniche, e così via) e non alla loro organizzazione globale come concretamente si percepisce durante un’esecuzione. La loro organizzazione è sempre lasciata alla libera invenzione del compositore che deve rispettare le regole strutturali e le convenzioni semantiche, ma non è obbligato ad adottare soluzioni predefinite. Egli deve usare regole e convenzioni consistenti in misture e dosaggi differenti, al fine di ottenere risultati interpretabili che corrispondono alle sue intenzioni espressive.

In ultimo, si potrebbe aggiungere che le regole di una grammatica musicale devono essere ben distinte dalle procedure psicologiche che si debbono applicare nelle attività compositive e dell’ascolto. Una grammatica musicale (come quella verbale) è una struttura non‐temporale, un sistema astratto di regole che noi possiamo imparare, elencare e descrivere. Ma quando la usiamo per far musica (o per parlare) dobbiamo risolvere nuovi problemi: quelli connessi all’organizzazione degli eventi nel tempo (per esempio problemi di percezione e di memoria) che non coincidono con le regole della grammatica. Nelle attività d’ascolto il sistema di suggerimenti studiato da Irène Deliège [cfr. Deliège‐Mélan 1997] presuppone la conoscenza delle regole grammaticali e la loro presenza nella memoria a lungo termine, ma questa ricerca si occupa di fenomeni del tutto diversi. Lo stesso si deve dire per i meno studiati, ma non meno importati, problemi riguardanti le attività compositive [Baroni 1999]. È mia opinione che la presenza di due diversi dominî e delle loro specifiche relazioni (la grammatica e la sua applicazione) non sia stata considerata con la dovuta attenzione dal mondo scientifico.

 

Ermeneutica musicale

Il fatto che il compositore sia libero di combinare e dosare gli eventi strutturali e le convenzioni semantiche senza essere obbligato ad usare soluzioni predefinite, ha conseguenze rilevanti per il concetto di significato: nella musica non dobbiamo mai fare i conti con significati inequivocabili, ma solo con un complesso di suggerimenti differenti che permettono l’interpretazione. Ciascuno di questi suggerimenti è basato su convenzioni semantiche non arbitrarie, ma il loro effetto globale può lasciare margini a interpretazioni parzialmente differenti. Nel processo dell’interpretazione, tuttavia, sorge un altro problema: in molti casi è abbastanza evidente che le allusioni alle esperienze umane evocate dalla musica possono essere di natura molto differente. In altre parole, le relazione di somiglianza “motivate” tra la forma e il significato musicale non sono arbitrarie, ma neppure inequivocabili. Due frasi musicali, per esempio, organizzate come antecedente e conseguente sono prese in considerazione (come si deduce dai loro nomi) come se fossero due parti di una specie di pensiero logico e la loro interpretazione può essere basata su una sorta di “significato”. Nella terminologia tradizionale essi sono chiamati “proposta e risposta”, in accordo con l’idea del XVIII secolo che la musica fosse una specie di dialogo [Rosen 1979]. Negli stessi anni, tuttavia, Giuseppe Carpani [1823] parlò di simmetrie architettoniche che la musica potrebbe creare in esempi simili. L’idea di tensione e distensione è estremamente comune nella letteratura musicologica, dal momento che la terminologia medioevale in simili situazioni usa i termini “aperto” e chiuso”. Cosa significa, in breve, l’accostamento di tali termini? Come si può raggiungere una coerente interpretazione? Si deve esaminare tale abbinamento sotto l’aspetto di un dialogo, di un’architettura, della gestualità, del pensiero filosofico, o forse dell’uso di una porta? Com’è possibile trovare una qualche unità in questo conglomerato irrazionale?

Tutti gli ascoltatori di musica sono intuitivamente ben conscî dell’esistenza di una coerenza e varie spiegazioni scientifiche sono state proposte per dimostrarlo. Per esempio Michel Imberty [1976] dice che l’ascolto musicale implica sempre l’uso di quelli che Piaget chiamava «schemi affettivi»: questo significa che un ascoltatore è in grado di cogliere immediatamente come una relazione affettiva sia presente tra ciò che una musica può evocare e come questi elementi siano unificati da un riferimento simbolico ad una emozione comune e non siano necessariamente definibili in termini concettuali, ma perfettamente comprensibili in modo intuitivo. In questo caso l’ascoltatore non usa un pensiero logico (che mostrerebbe le inconsistenze concettuali precedentemente menzionate) ma quello che Piaget [1945] chiama un «pensiero simbolico». E per quanto riguarda il pensiero simbolico, tensione e distensione, proposta e risposta, apertura e chiusura ecc., esso può avere la stessa funzione affettiva.

Questo è un modo per comprendere la realtà che i bambini adottano normalmente quando si dedicano ai loro giochi simbolici, un modo che il pensiero medioevale adottò per interpretare i segni della presenza divina nel mondo [Eco 1981], che molte culture (incluse quelle dei paesi industrializzati) normalmente usano in un’ampia varietà di differenti occasioni rituali [Firth 1973], che tutti noi adottiamo nella nostra vita quotidiana quando usiamo metafore e infine che tutte le forme artistiche esigono dai loro fruitori. Un numero di situazioni simili sono infatti bene conosciute nel campo della psicologia. Ci sono teorie che descrivono la “semanticità” delle emozioni che mostrano come la relazione tra differenti affezioni siano più facili da descrivere attraverso schemi topologici piuttosto che attraverso definizioni concettuali [Galati 1993]: questo vuol dire che un’analoga qualità emozionale può riguardare differenti e anche apparentemente opposti oggetti [Imberty 1979]. In altre parole, il dominio della concettualizzazione della realtà e quello dei responsi emozionali alla realtà sono mutualmente indipendenti. Così le varie differenti interpretazioni di un pezzo di musica non solo hanno margini di libertà dovuti ai vari livelli d’importanza assegnati alla sua struttura musicale, ma soprattutto hanno bisogno di essere elaborate in una forma che non è esclusivamente concettuale.

Dopo questo sguardo panoramico alla natura del significato musicale e alle regole musicali in grado di attribuire significato, possiamo ora ritornare al problema iniziale della cosiddetta musica assoluta con qualche nota conclusiva. Ancora una volta la comparazione con il linguaggio verbale può risultare utile. Quando parliamo, noi tutti fin dall’inizio sappiamo cosa vogliamo dire per poi cercare le giuste parole. Nella musica non è necessariamente la stessa cosa: i contenuti non sempre pre‐esistono alla musica che li manifesta. La creatività musicale può far sì che un compositore trovi particolari associazioni di caratteristiche musicali che hanno la forza di alludere a nuove significative situazioni emotive e su questa base componga dell’interessante musica nuova. Così spesso succede che la qualità estetica di un pezzo di musica non risieda nel fatto di trovare la giusta via per attribuire già conosciuti schemi affettivi, ma piuttosto nel creare situazioni affettive nuove. Certe situazioni, naturalmente, non possiedono parole capaci di rappresentarle: esse possono essere espresse anche se non sono già state concettualizzate e fors’anche se non lo saranno mai. Ci sono molti esempi di situazioni ed esperienze di vita che noi conosciamo molto bene senza però essere in grado di dar loro un nome. Non è affatto necessario dare un nome a tutto ciò che viviamo. In accordo con D. Raffmann [1993], ci sono esperienze che non hanno nome, che sono indicibili.

  1. Davies [1994] usa il termine «emozioni musicali» per descrivere la particolare categoria di significati musicali che sono presenti solo ed esclusivamente in musica. Quando Mendelssohn, in una famosa lettera a M.A. Souchay (15 ottobre 1842), affermò che i suoi pensieri musicali erano molto più specifici delle parole che avrebbero potuto descriverli, faceva riferimento esattamente ai questi stessi tipi di significati musicali. Questa particolare concezione di “emozione musicale” è la sola via per dare un senso alle vecchie teorie formalistiche: quando Jakobson e Ruwet dissero che la musica era significativa di per se stessa, fecero un’affermazione apparentemente assurda se noi interpretiamo “di per se stessa” in termini strutturali (una nota significa una nota). Ma la frase non è del tutto assurda se “di per se stessa” significa “un contenuto che solo la musica può dare”, una considerazione che può inoltre essere facilmente estesa a tutti gli altri linguaggi artistici: il significato di un volto in un dipinto di Picasso viene reso da quei tratti specifici e non pre‐esiste a quei tratti. Così, parlando più genericamente, il problema della spiegazione della natura della musica “assoluta”, e le controversie riguardanti le tendenze formalistiche nell’estetica della musica, non sono problemi musicali, ma verbali.

La mia intenzione, naturalmente, non è quella di spiegare la “musica assoluta” e le tendenze formalistiche. Il punto di vista che io intendo assumere è più generale e primariamente basato sulla distinzione tra regole di espressione diffuse e particolari. Questo continuum di possibilità, questa mistura di allusioni a non sempre “evidenti” schemi affettivi e a “descrivibili” immagini di altre meglio conosciute situazioni dell’esperienza (come i gesti, le sensazioni fisiche, i riferimenti a pratiche sociali e culturali descritte nella prima parte del saggio) è la condizione comune della tradizione musicale occidentale. Spesso non è facile fare chiara distinzione all’interno di questi insidiosi miscugli di regole grammaticali e dentro questa impercettibile varietà di convenzioni analogico‐ semantico. Così in molti casi l’interpretazione può diventare problematica, in modo particolare quando per interpretare significati musicali si devono usare delle parole.

Potremmo definire questo approccio al significato di tipo “emeneutico”. C’è una lunga tradizione filosofica nel campo dell’ermeneutica come l’arte di interpretare i testi dal significato delle parole: inizialmente il termine era riferito alla Bibbia, ma durante il XIX secolo fu esteso alla storia e ad altri campi; un famoso e controverso libro di Hermann Kretschmar [1903] lo applica alla musica. Sembrerebbe più opportuno adottare questo termine al posto del più comune “interpretazione”, poiché l’ultimo è normalmente assegnato all’esecuzione musicale. Tuttavia si può osservare che non c’è differenza nella natura dei due tipi di interpretazione: entrambi si sforzano di individuare la profonda natura dei significati musicali. La sola differenza riguarda il modo di manifestarle: la possibilità di usare i suoni stessi è molto più sottile e adattabile dell’uso delle parole. Questa particolare situazione, tipica della musica occidentale, non è presente nelle tradizioni musicali che non fanno uso di notazione, come nel jazz o in molte culture etniche. Nella nostra musica, l’esecuzione è esplicitamente considerata come avente un linguaggio particolare, diverso da quello della composizione e avente lo scopo di “interpretare” il linguaggio compositivo. Questo viene mostrato in modo chiaro, per esempio, nelle regole dell’esecuzione proposte da Johann Sundberg e dai suoi collaboratori [1989] che sono concepite come totalmente dipendenti dalla struttura scritta (la composizione) che devono rendere percepibile. Con le parole questo processo diventa più difficile: essendo nate per scopi diversi esse possono essere d’ostacolo. Se vengono applicate alla musica il loro problema principale è di sfuggire dalla loro natura concettuale, trasformarsi in metafore e divenire una sorta di poesia che parla di musica. Personalmente sono convinto che la musicologia debba essere e rimanere una disciplina scientifica, ma sono anche consapevole che uno dei suoi rami secondari, l’ermeneutica musicale, necessiti di usare un linguaggio verbale in un modo non scientifico. La cosa importante è di mantenere una chiara distinzione teorica tra le due funzioni (qualcosa che non è oggi sempre fatto); cioè evitare arbitrarie sovrapposizioni tra i dominî che esigono un linguaggio metaforico e anche ambiguo e quelli che necessitano dell’uso di una chiarezza scientifica unitamente al rifiuto sistematico delle ambiguità.

 

CONTINUA A SEGUIRCI SUI SOCIAL

www.diastemastudiericerche.org

YouTube

Facebook

Instagram

 


RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

AGAWU K. (1991), Playing with signs: A semiotic interpretation of classic music, Princeton University Press, Princeton.

BARONI M. (1999b), “Musical grammar and the study of cognitive processes of composition”, Musicae Scientiae, 3/1, 3‐22.

BARONI M‐DALMONTE R.‐JACOBONI C. (1999), Le regole della musica. Indagine sui meccanismi della comunicazione, EDT, Torino.

BARTHES R. (1953), Le degré zéro de l’écriture, Seuil, Paris 1953.

BENT I (cur., 1994), Music analysis in the 19th century (II: Hermeneutic approaches), Cambridge University Press, Cambridge.

BERLIOZ H. (1843), Grand traité d’instrumentation et d’orchestration, Lemoine (trad. it. Ricordi, Milano 1912).

BISMARCK G. VON (1974), “Timbre of steady sound: A factorial investigation if its verbal attributes”, Acustica , 30.

CARPANI G. (1823), Le Haydine, ovvero lettere sulla vita e le opere del celebre maestro Giuseppe Haydn, Tipografia della Minerva, Padova (riprod. anast. Forni, Bologna 1969).

CLARKE E. (1989), “Issues in language and music”, Contemporary Music Review, 4, 9‐22.

COKER W. (1972), Music and meaning; A theoretical introduction to musical aesthetics, The Free Press, New York.

DARBELLAY E. (1977), Prefazione to G. Frescobaldi, Il primo libro di Toccate d’intavolatoura di cembalo e organo, Edizioni Suvini Zerboni, Milano.

DAVIES S. (1994), Musical meaning and expression, Cornell University Press, Ithaca‐London.

DELIÈGE I.‐MÉLEN M. (1997), “Cue abstraction in the representation of musical form”, in Deliège‐Sloboda (cur.), Perception and cognition of music, Psychology press, Hove, 387‐412.

DOGANA F. (1983), Suono e senso. Fondamenti teorici ed empirici del simbolismo fonetico, Angeli, Milano.

ECO U. (1979), Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi, Bompiani, Milano.

ECO U. (1981), voce “Simbolo”, in Enciclopedia Einaudi, vol. 12, Torino. ERICKSON R. (1975), Sound stucture in music, University of California Press, Berkeley.

FIRTH R. (1973), Symbols public and private, Allen and Unwin, London.

GALATI D. (1993), “Conoscenza delle emozioni ed emozioni primarie”, in D. Galati (cur.) Le emozioni primarie, Bollati Boringhieri, Torino, 162‐212.

GALILEI V. (1581), Dialogo della musica antica et della moderna, Marescotti, Firenze.

HANSLICK E. (1854), Vom Musikalisch‐Schönen, Weigel, Leipzig.

HJELMSLEV L. (1961), Prolegomena to a theory of language, University of Wisconsin.

IMBERTY M. (1976), “Le problème de la médiation sémantique en psychologie de la musique”, in Versus, Quaderni di studi semiotici, 13, 35‐48.

IMBERTY M. (1979), Entendre la musique. Sémantique psychologique de la musique, Dunod, Paris.

JAKOBSON R. (1970), “Language in relation to other communication systems”, in Linguaggi nella società e nella tecnica, Edizioni di Comunità, Milano, 3‐16.

KRETZSCHMAR H. (1903), “Anregungen zur Förderung musikalischer Hermeneutik”, Jahrbuch der Musikbibliothek Peters, 45‐66.

KRUMHANSL C.‐SCHENCK D.L. (1997), “Can dance reflect the structural and expressive qualities of music? A perceptual experiment on Balanchine’s choreography of Mozart’s Divertimento n° 15”, Musicae Scientiae, 1/1, 63‐86.

MOLINO J. (1975), “Fait musical et sémiologie de la musique”, in Musique en jeu, 17, 37‐62.

NATTIEZ J.J. (1989), Musicologia generale e semiologia, EDT, Torino (ed. orig., Bourgois, Paris 1987).

PIAGET J. (1945), La formation du symbole chez l’enfant, Delachaux et Niestlé, Neuchâtel.

PIPERNO F. (1990), Prefazione a B. Marini, Affetti Musicali, Edizioni Suvini Zerboni, Milano.

RAFFMAN D. (1993), Language, music and mind, M.I.T. Press, Cambridge Mass.

ROSEN CH. (1979), Lo stile classico. Haydn, Mozart, Beethoven, Feltrinelli, Milano (ed. orig. Faber and Faber, London 1971).

Ruwet N.(1972), Langage, musique, poésie, Seuil, Paris.

SLOBODA J. (1985), La mente musicale, Il Mulino, Bologna (ed. orig., Oxford University Press, Oxford 1985).

STEFANI G. (1987), “Una teoria della competenza musicale”, in Il segno della musica. Saggi di semiotica musicale, Sellerio, Palermo, 15‐35.

SUNDBERG J.‐FRYDEN L.‐FRIBERG A. (1989), Common secrets of musicians and listeners. An analysis‐by‐synthesis study of musical performance, in Howell‐West‐Cross (cur.), Representing musical structure, Academic Press, London.

TAFURI J. (1987), “L’ascolto musicale: problematiche e progetti”, in C. Delfrati (cur). Esperienze d’ascolto nella scuola dell’obbligo, 9‐32.

TREVARTHEN C. (1999‐2000), “Musicality and the intrinsic motive pulse: evidence from human psychobiology and infant communication”, in Musicae Scientiae, Special Issue, 155‐215.

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e di profilazione. Cliccando su accetta si autorizzano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su rifiuta o la X si rifiutano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su personalizza è possibile selezionare quali cookie di profilazione attivare.